Slow Wine Fair 2023: Focus su la Romagna e la sua Albana
Di Elsa Leandri
A fine febbraio si è svolta a BolognaFiera la seconda edizione dello Slow Wine Fair, manifestazione diretta da Slow Food alla quale hanno partecipato ben 750 cantine selezionate provenienti da tutte le regioni italiane e da ben 21 paesi internazionali.
Oltre ai numerosi banchi di assaggio sono state organizzate diverse Masterclass e incontri il cui argomento spaziava dal futuro enoico in termini di sostenibilità al rapporto vino-salute nell’ottica della revisione dell’Ocm.
Importante la rappresentanza della regione che ospita l’evento, l’Emilia-Romagna, con ben 65 produttori: Sangiovese, Trebbiano, Albana, Ortrugno, Pignoletto e Lambruschi ne sono i vitigni maggiormente identificativi.
Non potevamo non tenere di conto di questa opportunità e di conseguenza il nostro Slow Wine Fair si è dedicato a un particolare vitigno romagnolo: l’Albana.
L’Albana e il suo territorio
L’Albana è un vitigno a bacca bianca, già conosciuto nell’antica Roma tanto da essere citato da Plinio il Vecchio e da Catone. La sua diffusione interessa principalmente i Colli che vanno dall’imolese al cesenate, nelle province di Bologna, Forlì/Cesena e Ravenna. Dopo continue affermazioni nei vari secoli viene insignito nel 1987 con lo status di Denominazione d’Origine Controllata e Garantita, diventando così il primo vino bianco italiano con tale menzione.
In contemporanea a questa ascesa si assiste però anche al suo declino essendo visto come vitigno ad elevata produzione e associato a vino da mescita tale da sminuirne la sua notorietà. Ha attraversato quindi un periodo di oblio, visto come un vino da tutti i giorni, da pasto. Oggi stiamo assistendo finalmente al suo rinascimento grazie all’attività dei viticoltori che si approcciano a questo vitigno con una nuova consapevolezza e con una visione a ampio raggio cercando di darne un’interpretazione a 360 gradi.
In questo lembo di terra i terreni sono diversi: si passa infatti da zone sabbiose-argillose (basso faentino e imolese) a zone ricche di Spungone romagnolo (tra Forlimpopoli e Cesena) a zone costituite dalla Vena di Gesso (basso imolese e Brisighella).
Tale morfologia così differente unita alla maestria dei viticoltori permettono di ottenere dei vini la cui identità va ben oltre la classica rappresentazione di un’uva a bacca bianca. Cinque le tipologie previste da disciplinare in cui l’Albana deve essere presente min. al 95%: secco, amabile, dolce, passito e passito riserva.
La macerazione o meno sulle bucce, una vendemmia precoce o tardiva (talvolta con lo sviluppo della muffa nobile, Botrytis Cinerea), l’uso di materiali riduttivi come l’acciaio o porosi quali terracotta o anfora permettono di dar luce a vini da una parte con una bevibilità eccezionale e con sentori piuttosto floreali, dall’altra di regalare vini maggiormente fruttati con la tipica espressività dell’albicocca, strutturati e con una lieve tannicità.
Queste diverse interpretazioni spesso vengono proposte all’interno di una stessa cantina così da far percepire la versatilità di questo vitigno rosso mascherato di bianco.Ultimamente inoltre si assiste anche alla produzione di qualche Albana spumante che rientra nella denominazione Romagna doc Albana Spumante.
Le aziende che proponevano vinificazioni di Albana allo Slow Wine Fair erano veramente numerose. Di seguito riportiamo i nostri migliori assaggi.
(100% Albana)
Giallo paglierino fitto. Sentori floreali di tiglio e camomilla accompagnati da albicocca e pera con effluvi di erbette aromatiche. Il sorso è pieno con una marcata freschezza e sapidità. Si percepisce una lieve tannicità tipica del vitigno che caratterizza la beva. Lenta dissolvenza con richiami fruttati.
Vitalba 2022 di Tre Monti –Romagna Docg Albana Secco
(100% Albana)
Giallo dorato. Attraente dai sentori di albicocca disidratata e pot pourri, arricchite da echi balsamici e resinosi e da pepe bianco. Al sorso è pieno e avvolgente impreziosito da una lieve tannicità. Offre un lento epilogo con richiami agrumati.
Codronchio 2020 di Fattoria Monticino Rosso – Romagna Docg Albana Secco
( 100% Albana)
Giallo dorato e vivace. Impatto olfattivo avvolgente e suadente in cui albicocca, pesca e fiori gialli sono circondati da miele di zagara e da erbe officinali. In bocca si ha corrispondenza con quanto evidenziato al naso. Freschezza e sapidità vivacizzano l’impatto con un lungo finale di scorza di arancia.
Vino con un’elevato potenziale d’invecchiamento: la fortuna di aver degustato anche la 2016, in cui i sentori si spostano maggiormente su una frutta esotica pur mantenendo freschezza e sapidità, ci permette di affermarlo.
Trapunta 2020 di Giovanna Madonia – Romagna Docg Albana Secco Macerato
(100% Albana)
Giallo dorato vivace. Sentori tipicamente varietali: albicocca, pesca, ginestra, salvia e timo. Entrata in bocca avvolgente e appagante. Freschezza e una leggera tannicità dinamicizzano il sorso e lasciano il cavo orale con richiami di agrumi e di ananas.
Antiqua 2021 di Francesconi Paolo – Vino Bianco
(100% Albana)
Giallo dorato con riflessi ambrato. Ricordi di tarassaco, tiglio, pesca e albicocca quasi disidrata cosparsi da note speziate. Pieno l’impatto gustativo caratterizzato da moderata tannicità e da una suadente sapidità. Lungo finale con echi di frutta gialla.
Delyus 2022 di Marta Valpiani – Romagna Docg Albana Secco
(100% Albana)
Giallo paglierino fitto. Entrata floreale di fiori bianchi, lemongrass sorretta da frutta a polpa gialla e da delicate note agrumate. Vibrante e saporito, rende il sorso piacevole e immediato. Chiusura di lime.
Al via le anteprime del 31° Merano WineFestival: 24 e 25 settembre Gran Premio di Merano, 21 ottobre Lagundo, 28 ottobre Merano Arte con Casabella
In attesa di Merano WineFestival (4-8 novembre 2022), le anteprime che svelano in esclusiva le eccellenze selezionate da The WineHunter Award.
Tre occasioni in tre eventi per conoscere e degustare alcuni prodotti wine, food, spirit & beer premiati da Helmuth Köcher. Appuntamento il 24 e 25 settembre al Gran Premio di Merano, il 21 e 22 ottobre a Lagundo e il 28 ottobre alla Merano Arte di Merano assieme a Casabella con la mostra “New Italian Wineries. Territories and Architectures”.
Merano (BZ), 23 settembre 2022 – Cresce l’attesa per la 31^ edizione di Merano WineFestival, in programma dal 4 all’8 novembre. Intanto, vanno in scena importanti eventi meranesi esclusivi palcoscenici enogastronomici delle eccellenze wine, food, spirits & beer selezionate da The WineHunter. Tre le anteprime che svelano in esclusiva i prodotti premiati da Helmuth Köcher e protagonisti del festival.
GRAN PREMIO DI MERANO
Il 24 e 25 settembre è il Gran Premio di Merano, la corsa steeple per eccellenza in Italia, ad ospitare all’interno dell’Ippodromo ben 48 aziende, suddivise tra tavoli espositivi e WineHunter Area, selezionate e presenti a Merano WineFestival. Una cornice esclusiva di eleganza e prestigio che porta in scena alcuni dei migliori prodotti wine e food selezionati durante l’anno da The WineHunter Award.
ANTEPRIMA A LAGUNDO CON CENA DI BENEFICIENZA
Il 21 ottobre a Lagundo, nei locali della Casa della Cultura Thalguter, una speciale serata di anteprima del festival riunirà esperti e appassionati del settore, permettendo di conoscere e degustare in esclusiva prodotti wine e food. Specialità che saranno protagoniste anche di una cena di beneficienza, in programma il 22 ottobre, a favore di “Un pozzo per la vita”, organizzazione di volontariato impegnata nella crescita dei Paesi in via di sviluppo che Merano WineFestival sostiene da anni.
NEW ITALIAN WINERIES. TERRITORIES AND ARCHITECTURES- Casabella (ELECTAarchitettura)
Il 28 ottobre, presso la Merano Arte di Merano, in occasione dell’evento “New Italian Wineries.
Territories and Architectures” organizzato da Casabella, Merano Arte, Merano WineFestival e il suo patron Helmuth Köcher saranno presenti con una degustazione all’insegna dell’eccellenza.
L’evento, focalizzato sulle top 11 cantine più interessanti dal punto di vista architettonico, a favore della sostenibilità e dell’impatto ambientale, diventa così anche un’opportunità in più per valorizzare il mondo del vino e le sue produzioni di qualità.
Il 31° Merano WineFestival si svolgerà dal 4 all’8 novembre e il tema della sostenibilità è al centro del dibattito: in programma, infatti, l’importante summit dal titolo “Respiro e grido della terra” nelle giornate del 4 e 5 novembre al teatro Puccini per discutere, assieme a grandi esperti, di soluzioni sostenibili attuabili nel mondo del vino e redigere un manifesto da presentare e consegnare al Ministro delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali.
Ad attendere gli ospiti della kermesse meranese, un format tradizionale che coinvolge anche quest’anno le famose e storiche location come Kurhaus, GourmetArena, l’Hotel Therme Merano e il Teatro Puccini, mentre viene ampliato il Red Wave: il tappeto rosso del Fuori Salone che quest’anno percorre l’intero Corso Libertà e la Promenade, da Piazza Arena a Teatro Puccini.
A Ischia, nel golfo di Napoli, non si produce solo Biancolella e Piedirosso. C’è anche chi produce vini diversi. Sicuramente da provare.
Decomposti e decomposte, buona sera e bentornati con Zombiwine: l’unico sommelier che se non lo segui morde. Non potevo esimermi di parlare anche qui, su Papillae di una delle aziende vinicole che amo in assoluto di più al mondo.
Badate bene, non si tratta di bottiglie costose. Non si tratta di uno Cheval Blanc del quale quasi sempre possiamo solo leggerne storia e recensioni e poi (almeno per la maggior parte di noi) dilungarci in atti di onanismo intellettuale\enologico.
I vini Bajola non superano i trentacinque/quaranta euro, che anche se non è proprio il costo di un etto di lupini, ancora è affrontabile.
Cominciamo a dire dove ci troviamo: Isola di Ischia, golfo di Napoli, Campania.
Nonostante l’isola sia famosa per la vinificazione del Biancolella e del Piedirosso, la nostra azienda – Baiola – ha deciso di perseguire una strada diversa.
Il loro vigneto di circa settemila mq (0,7 h, quindi quanto molti vigneti in Borgogna) è piantato con uve Vermentino, Viogner, Sauvignon Blanc, Incrocio Manzoni, Malvasia delle Lipari. Uve del Mediterraneo, queste, uve di popoli migranti, uve della storia.
Su ogni bottiglia troverete scritto “foglia n 13, 14, 15…” ecc.; questo perché la prima vendemmia ufficiale è avvenuta dopo tredici anni (tredici foglie) da quando il vigneto è stato piantato, cioè nel 2000.
Quindi, per osmosi, foglia 17 significherà vendemmia 2017, e così via.
Vini Bajola: tempeste ischitane.
Perché la scelta di queste uve?
Perché nella loro essenza c’è il mare, ci sono i viaggi, le tempeste e la storia dell’Europa: in pochi metri si parte dai Fenici e si arriva alla Seconda guerra mondiale.
I due vini Bajola sono davvero unici nella loro storia: andiamo a vedere perché e per poterlo fare, magari, può esserci utile avere sotto occhio il loro sito: https://bajoladalice.wordpress.com.
Il vigneto di Bajole è coltivato seguendo le pratiche biodinamiche, in biologico dal 2011, ma già da prima non si praticava un’agricoltura interventista. Oggi le uniche sostanze usate sono il rame, lo zolfo, il corno letame e la corno silice e un sovescio studiato appositamente per il vigneto.
Come potete già intuire da queste poche parole, l’azienda crede assolutamente nella filosofia naturale. Devo, per correttezza intellettuale, aggiungere che sono avvantaggiati dal terreno vulcanico di Ischia: un connubio perfetto quello fra biodinamica – supporto mio e microbiologico – e terreni vulcanici.
Sul sito aziendale c’è l’andamento della vendemmia di ogni singola annata, questo perché le peculiari caratteristiche di questi vini fanno si che davvero ogni singola annata sia storia a sé. Ne parleremo.
Vini Bajola: macchine del tempo
Ora, perché dico che questi vini sono una macchina del tempo? Perché seguono un processo di vinificazione molto particolare. Comprenderlo ci permetterà di fare un viaggio lungo migliaia e migliaia di anni.
Tutti (spero) saprete che il vino nasce in Georgia, in Iran, in Iraq e in Armenia e che poi è stato portato in Europa prima dai Fenici e poi dai Greci; infine, a Roma, la vite diventa la compagna dei popoli.
All’epoca strumento di trasporto e di vinificazione era l’anfora di terracotta, questo contenitore sta vivendo oggi una nuova primavera; in Georgia ancora oggi le anfore interrate Qvevri (o Queveri) vengono utilizzate per verificare e invecchiare il vino.
Tuttavia c’è anche di un altro archeo-metodo che sicuramente era utilizzato dai popoli ellenici: il Palmento. Ai fini di questo articolo non mi interessa decidere quale dei due sia nato prima, anche perché probabilmente erano entrambi utilizzati nel medesimo periodo.
Ma cosa è un palmento?
È una vasca in pietra che si utilizzava per la raccolta delle acque piovane, che poi erano impiegate per irrigare i campi; una forma che si prestava perfettamente ad essere usata come contenitore per uve da pigiare e per agevolare la partenza della fermentazione. Poi, probabilmente, il liquido vinoso veniva messo nelle anfore.
In Italia, sopratutto sull’Etna e in Sicilia, i palmenti si sono utilizzati sino all’inizio del Novecento e qualcuno dei più tradizionalisti fra i produttori li usano ancora per pigiare le uve.
Ma cosa centra questa storia con Ischia e con Bajola?
Sull’isola ci sono ritrovamenti archeologici che attestano la presenza di grossi palmenti utilizzati, appunto, per la vinificazione. Quando i proprietari Francesco ed Alice decisero di vinificare la propria uva avevano un enorme problema: per vincoli paesaggistici non potevano costruire una cantina, e allora ebbero un lampo di genio: trasformare il palmento in una specie di anfora a modo loro.
Vini Bajola: il lampo di genio
Come funziona, quindi, il palmeto di Bajola? È tutto molto semplice.
In mezzo alla vigna sono state ricavate tre vasche da una cisterna interrata utilizzata un tempo per la raccolta dell’acqua piovana.
Le uve appena raccolte vengono solo di raspate e messe nelle vasche per caduta, senza l’uso di pompe o altro ausilio.
La fermentazione parte spontanea.
Non c’è nessuna aggiunta di solforosa, nessuna chiarifica e nessun filtraggio.
Quando la fermentazione tumultuosa termina si svina e da questo momento in poi il vino affina sempre nelle stesse vasche sulle sue fecce fini.
Le vasche sono mantenute sature di gas inerte per evitare ossidazioni.
Dopo sei mesi si imbottiglia e, voilà, ecco il Bajola.
A questo vino va affiancato, dal 2017, uno strano esperimento, ovvero il vino perpetuo Bajola in tiano.
Bajola in “tiano”
A questo punto si fa un salasso dal palmeto e lo si trasferisce nel tiano.
Il tiano è un contenitore di terracotta della stessa forma e dimensioni di una barrique (circa 200-210 litri di capienza). Lo produce la fornace Masini di Impruneta (Firenze).
Il tiano è protetto esternamente con un composto a base di cera d’api, olio di lino ed essenza di agrumi.
La ricetta proviene da lunghi studi finalizzati a non renderlo completamente impermeabile, ma di mantenere una certo contatto con l’aria adatto all’affinamento del vino.
Prima del primo utilizzo, l’interno del tiano viene sottoposto a una sorta di encausto esclusivamente a base di prodotti vinosi, ciò per ridurre la porosità della terracotta.
Il tiano non si riempie mai totalmente, in modo da consentire un sostanziale contatto fra superficie vino e aria, favorendo così la creazione di un Flor di lieviti.
Il tiano non viene mai svuotato; al momento dell’imbottigliamento si lascia almeno il 10% del vino ricco di feccia fine, memoria delle annate precedenti.
È questo il metodo “perpetuo” di Bajola.
Vini Bajola: come sono?
Ma come sono questi due vini? Estremi e adatti. Chi non ha paura di sporcarsi il naso o il palato fanno per lui: non sono vini per novellini, insomma, o verginali enoici.
Io li amo molto.
Il Bajola foglia
Il Bajola foglia è un vino in cui coesistono piacevolezze e difetti, proprio come nel ciclo della natura: il colore è intenso e scuro, quasi marsalato, e il vino ha una sua personale quantità di volatile e una riduzione per cui bisogna berlo, se ci si crede. Che voglio dire? Che se per te il vino è solo giallo paglierino lascia stare, questo non è un vino da bacetti sotto al muschio. È un vino che ti prende e ti zompa addosso come una pazza meretrice! Ti strappa l’anima, il cuore e ci gioca a carte e poi – non contenta – ti chiede anche di sposarla!
Ma dietro quella volatile c’è tutta la bellezza dell’isola di Ischia! Odore di pesca percoca, quella gialla. Macchia mediterranea, ginepro, profumo di mare e risacca, quella sensazione olfattiva prima che venga a piovere e su tutto, poi, al sorso, una strabiliante complessità aromatica. Questo è uno di quei vini che o lo ami o lo odi, e non sono io a volerne tessere per forza le lodi. Se non dovesse piacervi potrei capirlo, io lo amerei comunque.
Amo tutto di lui, amo i suoi difetti, la sua brutta abitudine di mordere e urlare. La sua assoluta autenticità, annata dopo annata.
Il Tano
Diversa è la storia del Tano, che invece è un vino oscuro e tempestoso: qui le sensazioni sono portate al limite della sopportazione, arricchite anche dall’ossidazione. Un vino misterioso, massonico, che potrete capire solo dopo aver percorso una strada personale di studio dell’underworld del vino. Io, ancora, non ci sono riuscito, ma – avendone bevuto solo una bottiglia – mi concedo il diritto di riberlo. Assolutamente assurdo, credetemi, e so benissimo che, per la metà di voi, è una cosa profondamente sbagliata.
Di colore quasi neutro, va aperto e lasciato almeno qualche ora a decantare, meglio se proprio in un decanter. Poi da tutti quegli strati di sensazioni assolute lentamente sorgerà un fiore, un profumo di tè, di tabacco, di caffè, con note tostate, un sentore di funghi, di fior scuri, di pietra vulcanica, di mare in tempesta, con vaghe note ossidative.Un’esperienza assolutamente unica.
Il sorso non si può descrivere. Sappiate solo che io l’ho bevuto in tre giorni, come se fosse una turista misteriosa con cui trascorrere un weekend folle di sesso.
Conclusioni
Questo è Bajola, una storia d’amore per un isola, per una terra, per un modo di fare vino e per un approccio al vino stesso: non ho la pretesa che a piaccia. ma visto che ormai siamo in un mondo che accetta le altrui differenze, datemi retta: non fate gli enofobici! Prendetevene una bottiglia (meglio due) e cercate di capire cosa mi ha emozionato in questi cinque meravigliosi anni, da quando mio sono avvicinato per la prima volta ai vini di Bajola.
Rosavite 2019 Rosato Terre degli Osci IGT Terresacre
Di Piergiorgio Ercoli
Da uve montepulciano in purezza, coltivate sulle colline molisane a Montenero di Bisaccia (CB) ad un’altezza di circa 300 metri slm, terreni argillo-calcarei, dove il clima è caratterizzato dall’influenza delle correnti marittime dall’Adriatico che favoriscono l’arieggiamento del corpo vitato evitando la formazione di muffe e donando una identitaria sapidità.
Raccolta manuale, diraspatura, pigiatura morbida per mantenere l’integrità degli acini.
Macerazione di circa 10 ore cui segue una pressatura soffice del mosto, quindi fermentazione in bianco per circa 10 giorni a temperatura controllata di 16°-18°.
Degustazione
Analisi visiva
Nel calice rosa corallo, trasparente e limpido. Di consistenza media.
Analisi olfattiva
Sufficientemente intenso, di media complessità e finezza. Dominante olfattiva fruttata, ciliegia e fragoline di bosco; toni vegetali di erba appena tagliata, toni minerali di humus e terra bagnata.
Leggera spezia scura.
Analisi gusto-olfattiva
Secco, moderatamente caldo, morbido. Fresco, tannini duri, sapido. Corpo medio, sufficientemente armonico, buona permanenza. Sufficientemente fine e sufficientemente armonico. Pronto.
Ricetta in abbinamento eseguita da Carol Agostini
In abbinamento un gioco di consistenze e sapori, forme e colori per un abbinamento decisamente intrigante quanto gustoso di formaggi di varie tipologie e stagionature.
Tagliere di formaggi provenienti dall’Altopiano di Asiago da Asiago pressato dolce, a quello saporito, al mezzano di 6 mesi di malga, con fragole, crostini tostati, asparagi in agrodolce, cestino di grana padano con erbette di montagna stufate, caciotta di pecorino di malga alle foglie di olivo.
Il Sake e le Ostriche di vario tipo e provenienza 2022
Di Gaetano Cataldo
L’ostrica è un mollusco bivalve presente praticamente in tutti i mari, dove si riproduce e cresce liberamente; molti però sostengono, e a ragion veduta, che le migliori e più saporite ostriche non siano quelle selvatiche ma quelle di allevamento della costa francese che guarda all’Oceano Atlantico, verso il sud della Bretagna e nella regione del Merennes-Oléron anche se in realtà non mancano le eccellenze in diverse aree del Mar Mediterraneo e del mondo.
L’ostricoltura è diffusissima principalmente in Cina, Corea del Sud e Giappone; si pensi che circa il 70% della produzione annua di ostriche giapponesi proviene dalla Baia di Hiroshima… qui le ostriche sono chiamate “Latte del Mare”, sono molto apprezzate per dimensione, tenerezza e gusto, e sono rinomate soprattutto per le condizioni in cui crescono: i nutrienti di ben sei fiumi discendenti dai monti del Chugoku, che si riversano nella baia, ed il conseguente blend tra acqua dolce ed acqua salata rende questa specie ittica davvero speciale; nella classifica mondiale troviamo la Francia al quarto posto, prima in Europa, poi l’Irlanda e la Spagna.
L’ostrica concava del Pacifico, la Crassostrea Gigas, è la più coltivata al mondo, proviene dal Giappone ed è presente anche in altre aree di Oriente ed Estremo Oriente.
L’ostrica concava viene selezionata da molti allevatori europei grazie alla sua crescita rapida ed alla sua adattabilità: infatti a causa della scomparsa dell’ostrica portoghese, la Crassotrea Angulata, verso gli anni ’70 ha trovato vasta diffusione sul Vecchio Continente assieme all’ostrica piatta, detta Ostrea Aedulis.
Le due specie sono entrambe molto apprezzate dai consumatori di tutto il mondo anche se dal punto di vista gastronomico le ostriche piatte vengono ritenute più pregiate grazie alla morbida aromaticità e delicatezza della texture, mentre le ostriche concave o allungate sono generalmente più carnose e posseggono un sapore salmastro spiccato che le rende più persistenti.
Per poter ottenere le larve di ostriche necessarie agli allevamenti, dette anche “naissain”, si provvede alla captazione del novellame in ambiente marino aperto, oppure selezionando gli esemplari adulti per l’avanotteria.
Dagli stock di allevamento gli esemplari che avranno compiuto in media 18 mesi verranno prelevati per mezzo dei cosiddetti “plates”, piccole imbarcazioni dallo scafo e dalla chiglia piatta, portati fino alle aree adibite ad ostricoltura e disposti a seconda di come si intende allevarli.
Al giorno d’oggi esistono diverse tecniche di allevamento come ad esempio quella a “poches”, ossia la disposizione delle giovani ostriche in sacche consistenti in piccole reti di plastica, a loro volta disposte su tavole di metallo o a sparse al suolo di modo però che siano esposte alla risacca del mare, sacche che dovranno essere periodicamente rivoltate per garantire la crescita regolare di questi frutti di mare ed assicurare loro buone condizioni di vita ed un’ottimale circolazione dell’acqua di mare.
Il modello di ostricoltura cambia nella laguna mediterranea, ne sono un esempio lo stagno di Leucate e lo stagno di Thau, dove l’allevamento è verticale vista la scarsa escursione di marea e le ostriche vengono ancorate a corde vegetali a tre legnoli, oppure a corde sintetiche di nylon, piuttosto che a tavole di legno di mangrovia, ma sempre ad immersione permanente e con crescita più rapida rispetto agli esemplari allevati in Nord Europa.
Dopo la fase di pre-ingrasso ed ingrasso durante l’allevamento le ostriche passano alla rifinitura in apposite vasche o bacini di decantazione perché possano espellere melma e sabbia, dove talvolta degli iniettori di ossigeno aiutano a far affiorare i batteri nocivi in forma di schiuma facilmente eliminabile.
Caratteristici della Charente Marittima e della Vandea i bacini d’argilla alimentati da una miscela di acqua di mare e d’acqua dolce, detti “claires”, conferiscono alle ostriche un gusto particolare ed il tipico colore da “verdissement”.
Per quanto si suppone che l’ostricoltura sia stata avviata per prima dal popolo cinese non ci sono tracce evidenti e sufficientemente attendibili a dimostrarlo mentre, come la storia dimostra, questa pratica dell’acquacoltura pare più evidente essere stata inventata dagli Antichi Romani ed avviata persino nell’antica Albione da cui partivano cospicui carichi per Roma, tanto gli antichi latini ne andavano ghiotti e le reputassero indispensabili per la migliore riuscita di un banchetto:
fu così che da piatto povero, sotto Nerone, le ostriche divennero un piatto estremamente prelibato ed alla moda, tanto più che quelle provenienti dal Canale della Manica erano decisamente diverse rispetto a quelle che si raccoglievano lungo le coste della penisola italica, dell’Egitto e dell’Antica Grecia, ove il delizioso frutto di mare era considerato sì un cibo prelibato ma alla portata di tutti:
d’altronde il termine ostracismo, la pratica di votare o meno a favore l’esilio per un cittadino, si compiva proprio trascrivendo tale scelta su di una conchiglia di ostrica.
Naturalmente, per quanto le notizie scarseggino o non vengano valutate alcune fonti, le ostriche hanno costituito per millenni un cibo fondamentale per l’alimentazione umana grazie alla loro reperibilità e semplicità di consumo, tanto nell’area mediterranea quanto in Cina ed in Giappone: l’allevamento delle ostriche risale ad epoche remote e la singolarità dell’ostricoltura nel Sol Levante consisteva nell’impiegare rocce e canne di bambù a cui i bivalvi si attaccavano molto agevolmente.
Tra le ostriche piatte più famose vanno menzionate le Ostriche Belon, dalla tipica forma tondeggiante e dal gusto delicato, chiamate così perché un tempo venivano affinate esclusivamente sulle rive del fiume Belon in Bretagna, e le Ostriche Marenne, dal tipicissimo color verde acqua dovuto ad un’alga chiamata navicula blu che ne rilascia il colore… assieme all’Ostrica Pied de Cheval di Aquitania è tra le più care sul mercato.
Il recipiente più antico per bere il sake è la sakazuki, una coppa dall’apertura molto ampia fatta in terracotta o porcellana, finemente laccata e decorata, oggi disponibile sia in vetro che in oro o argento, in realtà però ne esisteva un altro ancora più vetusto e fornito dalla natura stessa: le conchiglie di ostrica.
In realtà la sintonia tra questi frutti di mare ed il nihonshu non si limita soltanto all’antica consuetudine di sfruttare la concavità dei loro gusci per favorirne la mescita: se è vero che il sake non litiga mai col cibo addirittura con le ostriche ci fa l’amore!
Le ostriche consumate crude ed il sake artigianale giapponese vivono un rapporto simbiotico che nessuna altra bevanda riesce a vantare, i due elementi hanno infatti delle caratteristiche simili che derivano dalla salinità, dalla tendenza dolce, dalla texture setosa e dalla cremosità che rendono entrambi compagni per la vita e per la gioia a tavola, ma c’è di più: l’umami!
L’umamiè la quintessenza del pairing tra ostriche e nihonshu
Costituisce il quinto gusto, quello che aiuta a bilanciare e migliorare gli altri quattro, ossia il salato, l’acido, l’amaro ed il dolce, traducendo appieno il sapore degli aminoacidi e nello specifico di glutammato, inosinato e guanilato… e guarda caso l’ostrica è tra i cibi più ricchi in natura di glutammato e di inosinato.
Ecco dunque spiegato attraverso queste straordinarie affinità elettive, di cui Madre Natura ha voluto dotare entrambi gli elementi, il perché bere sake e mangiare ostriche costituisce un abbinamento armonico perfetto. Si noti che, rispetto alla birra o al vino, il sake contiene mediamente una quantità di acido glutammico anche 20 volte superiore.
Ovviamente esistono delle prerogative che nell’abbinamento già congeniale tra ostrica e sake di per sé possono rendere il matrimonio ancora più felice…
Per quanto riguarda il frutto di mare terremo in considerazione quindi non soltanto la tipologia ma anche la provenienza, il rapporto tra acqua dolce ed acqua salata, la rifinitura, la modalità di apertura, il profumo, la consistenza e le caratteristiche gusto-olfattive.
Per quanto attiene al sake occorrerà fare invece attenzione all’umami, alla sapidità ed alla tendenza dolce: che il primo non superi quello dell’ostrica e che la seconda non sia particolarmente presente quando è già contenuta nel bivalve che, al contrario, se avesse una spiccata tendenza dolce potrà in questo caso giovarsi della sapidità di un otoko-zake.
Dunque la percezione di quanto queste caratteristiche comuni siano intense è fondamentale tanto quanto la persistenza aromatica dei due elementi in abbinamento ed il nihonshudo del fermentato giapponese: infatti un’ostrica dalle carni sode e dal gusto deciso vorrà un sake dal sapore più deciso e con una struttura più consistente, mentre un frutto di mare più delicato avrà bisogno di un sake satinato e gentile.
Alcuni esempi?Abbinamenti
L’Ostra Regal viene direttamente dall’Irlanda: trascorre i primi due anni di vita nella parte nord dell’isola, dove si nutre di fitoplancton, poi viene trasferita al sud presso la foce del fiume Snaney, dove le acque dolci ne completano l’affinamento. Un’ostrica dalla spiccata tendenza dolce con una consistenza tattile cremosa ed un finale di raffinata sapidità.
Un Junmai delicato ma con un carattere salino per tener testa alla prevalente tendenza dolce del bivalve. Si potrebbe persino azzardare con un cremoso e raffinato Junmai Daiginjo, stravolgendo le regole per un’esperienza sensoriale intrigante ed in sintonia con la texture dell’ostrica.
L’Ostrica Tsarskaya viene allevate a Cancale nella Bretagna Settentrionale, precisamente nelle aree di Park St. Kerber e della Baia di Mont St. Michel. Il gusto di questa varietà dal profumo iodato è ricco ed equilibrato al tempo stesso, il frutto è setoso e consistente con un gusto salino, una lieve nota di nocciola ed una bilanciata tendenza dolce.
Si abbina con piacevolmente con un Junmai Ginjo con una sbramatura del chicco attorno al 50% che conservi una buona nota cerealicola e che sia di grande equilibrio tra morbidezza, freschezza, sapidità ed umami. Ed uno sparkling sake? Perché no?
L’Ostrica Tarbouriech, di quelle proveniente dall’Emilia Romagna però e precisamente dalla Sacca degli Scandinavi, presso il delta del fiume Po:
è raffinata a partire già dall’aspetto, con quelle sue nuances rosa, si presenta all’olfatto con note salmastre e vegetali, mentre all’assaggio è consistente, succulenta e con una persistenza che orbita attorno a note vegetali sia marine che di sottobosco.
Un Junmai Ginjo affilato ed asciutto, capace di arginare la succulenza del frutto di mare e che ne raggiunga in persistenza le stesse vette.
L’Ostrica del Calvados è praticamente l’ostrica allevata più a Nord di tutta la Francia ed è stata premiata diverse volte nella categoria ostriche normanne.
Essa cresce proprio nella patria del famoso distillato di mele, ossia nel dipartimento di Calvados, precisamente nella Côte de Nacre, nei paesi di Asnelles e Meuvaines. È un’ostrica molto singolare in quanto riconoscibilissima grazie al suo guscio estremamente bianco, grazie alla limpidezza delle acque da cui proviene, e soprattutto per il suo sapore tendente all’aglio.
Le durezze e la nota iodata di questo frutto di mare, assieme al alla nota agliata, vorrebbero un sake morbido, persistente e con una buona nota umami.
Un Koshu Sake, prodotto con metodo Kimoto e magari invecchiato in grotta, sarebbe un abbinamento davvero piacevole.
L’Ostrica Special San Teodoro è un’eccellenza dell’ostricoltura in Sardegna: viene allevata a ciclo completo, ossia a partire dal seme, nella laguna di San Teodoro in provincia di Nuoro.
La conchiglia è tendenzialmente omogenea ed a forma di goccia, mentre il frutto è copioso e croccante, con note gusto-olfattive iodate ma con tendenza dolce, sentori vegetali e di frutta secca.
Un Tokubetsu Junmai fragrante, dai toni sia fruttati che erbacei magari.
L’Ostrica della Baia Hiroshima: immaginate questi esemplari di gran calibro arrivare alla vostra tavola direttamente dal kakifune, letteralmente barca delle ostriche. Preparate con la caratteristica ricetta kaki nabe, con porri, funghi e tofu, meritano certamente un Genshu Junmai, ma anche un Tokubetsu Junmai ci starebbe alla grande. Ci sono tra i Junmai dei veri e propri fuoriclasse che con le loro note burrose e boschive creerebbero comunque un match ad alto impatto emotivo e gustativo però.
Le ostriche, diversamente da quelle allevate che sono state modificate geneticamente e rese sterili, vedono il miglior consumo nel mese di gennaio ed anche in altri periodo dell’anno, eccetto che da maggio ad agosto, epoca di riproduzione, poiché in questa fase diventano più molli, lattiginose, meno saporite e soprattutto più deperibili.
Le ostriche di allevamento del tipo concavo sono classificate rispetto al calibro: dal 5 allo 0, rispettivamente dalle più piccole e dal peso di 30-45 fino alle più grosse che arrivano a superare i 150 grammi.
Inoltre, in base all’affinamento, si suddividono così come segue:
Fines: affinate in mare aperto per almeno 1 mese con densità di 20 ostriche per metro quadro. Speciales: affinate per almeno 2 mesi in mare aperto con densità di 10 ostriche per metro quadro. Pousse: se affinate per 4-8 mesi in mare aperto con densità di 5 ostriche per metro quadro. De Claires: affinate in bacini di acqua dolce poco profondi e argillosi, i claires appunto. Vert: affinate in presenza della microalga navicula blu, come menzionato in precedenza.
Composizione
Le ostriche sono composte d’acqua per l’85% circa, apportano 40 kilocalorie di proteine, 21 di carboidrati ed 8 di grassi per ogni etto e costituiscono una miniera ricchissima di sali minerali quali ferro, fosforo, potassio, rame, sodio e zinco, oltre che di vitamina B12, e sono considerate un alimento afrodisiaco per una ragione specifica: favoriscono lo sviluppo degli spermatozoi, fanno bene all’amore e pertanto è meglio tenere sempre una bottiglia di sake a portata di mano in camera da letto, assieme alle ostriche e ad una sana inventiva perché, afrodisiaco o non afrodisiaco, è il pensiero quello che conta.
Cosa sono i sensi e quanti sono? Una domanda che mi è saltata in testa parecchi anni fa, da quel momento ho ascoltato, osservato e analizzato me stessa, o meglio il mio corpo e la mia esistenza.
Vi capita mai di avere la sensazione di conoscervi attraverso parole, gesti e movenze? Attraverso lo spazio che occupiamo, il tempo che trascorre, ciò che guardiamo o attraverso il dolore che proviamo?
Rifletteteci, scoprirete angoli nascosti che mai avete analizzato, situazioni sfuggenti, emozioni nascoste, esiti sommersi da automatismi vitali senza alcuna ricerca fine a se stessa.
Ed eccomi qui a raccontarvi i miei studi, il percorso che ho fatto alla ricerca dei sensi umani, queste vie che ci permettono di percepire informazioni sul mondo e sul nostro corpo.
Eravamo tutti rimasti ai cinque sensi.
Il viaggio però continua, sono passata dai 13 ai 17, man mano che la scienza negli anni si è evoluta.
I sensi li identifichiamo e li conosciamo come i mitici cinque, i super eroi del nostro secolo, coloro che risolvono, che ci fanno vivere, ma allo stesso tempo sono causa di malattie e di soddisfazioni.
I classici cinque sensi sono la vista, l’udito, il gusto, l’olfatto e il tatto. E gli altri?
Come anticipato, i veri sensi sono 17 e si dividono in tre macro aree di appartenenza e competenza:
I sensi meccanici: tatto, udito, propriocezione (posizione nello spazio, nel buio e nel silenzio), equilibrio, fame, sete, stimolo di urinare, prurito, termo percezione, tensione, magnetismo, tempo.
I sensi chimici: gusto, olfatto, dolore, stiramento.
I sensi luminosi: la vista.
I sensi, uno a uno
Vi faccio un esempio concreto per quei sensi che non immaginavate fossero appunto sensi:
l’equilibrio è un senso meccanico, perché è il sistema vestibolare dell’orecchio a far percepire come cambia la nostra posizione in relazione alla gravità, così come la fame, la sete e lo stimolo a urinare, che sono sempre sensi meccanici, come del resto lo è la pressione sanguigna.
Le propriocezioni, parola di difficile pronuncia, sono invece quei recettori che ci permettono di ubicarci nella posizione in cui siamo, quella sensazione che ci permette di addentrarci nella nella spazialità, che ci aiutano a trovare una collocazione precisa nel buio e nel silenzio.
Una domanda mi sono fatta in questi anni…dove ci portano i sensi? Ci portano alla conoscenza, della percezione della complessità di ogni situazione vissuta nel mondo e di noi stessi, ci spingono a cercare, conoscere, capire e a renderci umanamente persone.
La vista consente di distinguere forme, colori, distanze, oltre alla tridimensionalità di tutto ciò che osserviamo.
Il gusto, identificato in cinque gusti. I sapori percepiti sono il dolce, il salato, l’amaro, l’aspro, ma c’è anche l’umami, cioè il gusto di glutammato (presente nei cibi ricchi di proteine come carne e formaggio). C’è un sesto gusto poi, individuato, ma non ancora classificato, che comprende le papille gustative che percepiscono la presenza di grasso.
La pressione, chiamata comunemente “tatto” (che però spesso è associato anche ad altri sensi), è la capacità di riconoscere una pressione su una zona specifica del corpo.
Il prurito, per quanto la cosa possa stupire, ha un sistema sensorio proprio, distinto da quello del tatto ed è un senso meccanico di difesa e di stimolazione.
La termo percezione, è la capacità di avvertire il freddo il caldo, divisi per diversità dei recettori e meccanismi di rilevamento.
L’udito, capacità di avvertire vibrazioni nell’aria o, comunque nel gas/liquido in cui si è immersi, captando i suoni che provengono dall’esterno e che si trasmettono attraverso il canale uditivo alla corteccia temporale che li decodifica.
L’olfatto, capacità di sentire odori e profumi. I sapori sono creati dalla combinazione di gusto ed olfatto grazie all’azione dei chemiorecettori, cellule presenti nella mucosa olfattiva (un’area della mucosa nasale) capaci di reagire alle caratteristiche chimiche delle sostanze odorose.
La propriocezione (o cinestesia), è la capacità di riconoscere la posizione del proprio corpo e dei singoli arti nello spazio. Per la cronaca, è uno dei sensi che viene alterato dal consumo di alcol; da qui l’abitudine di utilizzare il metodo “chiudi gli occhi e toccati il naso” per valutare lo stato di sobrietà di una persona.
La tensione permette al cervello di accertare lo stato di tensione e contrazione dei muscoli.
Il dolore, un tempo considerato un “sovraccarico” di altri sensi, come il tatto, in realtà provvisto di recettori e di una rete sensoriale propria. Anzi, in realtà ce ne sono tre distinte: quella cutanea sulla pelle, quella somatica su ossa e giunture, e quella concernente gli organi interni.
L’equilibrio, che permette di identificare le accelerazioni (compresa quella di gravità). L’organo dell’equilibrio è il labirinto vestibolare, che si trova nell’orecchio interno.
Lo stiramento. I recettori specifici per lo stiramento e l’allungamento si trovano in particolare nei polmoni, nella vescica, nello stomaco e nell’intestino. Spesso questo senso sarebbe anche collegato ai mal di testa, in particolare associato alla percezione della dilatazione dei vasi sanguigni.
La chemio percezione, data dai chemiorecettori è la percezione degli stimoli chimici, in particolare attivata dagli ormoni, come l’esigenza di fare pipì.
Sete, è un senso autonomo, che si attiva quando l’idratazione del corpo scende.
Fame, anche questa ha una sua autosufficiente rete sensoriale.
Magnetismo, è la capacità di avvertire campi magnetici. Negli esseri umani, non è particolarmente risaltata come in alcune specie di uccelli che sono precisamente in grado di percepire il campo magnetico terrestre (usando questo per orientarsi), ma c’è sicuramente una sensibilità di base.
Il Tempo, gli esseri umani hanno una percezione molto precisa del tempo, soprattutto i giovani.
Domande e risposte
Qual è il senso maggiormente usato?
Beh, che dire… ovviamente la vista. Con essa ci si entusiasma, ci si seduce e ci si innamora, di un paesaggio, di una persona, di un cucciolo di animale.
È il importante recettore che innesca le nostre emozioni.
Ma avete mai pensato al profumo dell’aria? Che odore ha?
L’aria ha il profumo dei nostri ricordi, un mix tra contesto e azioni che si innalzano con il vento. Non si vede, ma si percepisce; è una culla di profumi che si mescolano e danzano in soffi leggeri.
Avete mai pensato che ogni piatto è un viaggio sensoriale?
Ha un’infinità di varianti che innescano i nostri sensi, dalla spazialità ai colori, dalle forme alla consistenza, dal sapore ai profumi. Ma mangiare non implica solo i primi “i magnifici cinque”, ma anche molti dei sensi meccanici, come la pressione, la termo percezione, la chemio percezione e tanti altri.
E vedere un film?
Oltre al senso luminoso che è la vista, anche i sensi meccanici sono coinvolti e spesso sono quelli che accompagnano le emozioni dei nostri sguardi e delle nostre lacrime.
Tutti viviamo i sensi nello stesso modo o intensità?
No, i sensi di ognuno di noi sono imprevedibili e dipendono da fattori diversi a seconda della sensibilità umana, da predisposizioni fisiche naturali e da un allenamento volontario. Vi faccio un esempio concreto, un degustatore sommelier può avere doti naturali di analisi ma si allena, si crea una memoria olfattiva e gustativa e si concreta per riscoprirla attraverso l’analisi.
Quali sono le vacanze che intrigano?
Ovviamente quelle sensoriali, in cui si evocano e si risvegliano i canali della percezione spesso poco usati, creando grande stupore e coinvolgimento e utilizzando il maggior numero di sensi a nostra disposizione, aiutandoci a creare sensazioni date dal contatto diretto con la sperimentazione. Il divertimento sarà assicurato.
Quindi che ne pensate, dunque, di lasciare a casa le inibizioni, gli automatismi dati dalla routine e quotidianità e in questa torrida estate VIVERE DI SENSI?
Piemonte, Albugnano DOC e uno dei suoi produttori 2022: Alle Tre Colline.
Di Elsa Leandri
Il Piemonte
Si sa essere regione di vini e di nocciole. Oltre alle celebri denominazioni Barolo e Barbaresco un piccolo paese di 500 anime, che si trova nel Monferrato nordoccidentale vicino a Torino, custodisce una delle 341 doc italiane, la Doc Albugnano, che prende nome dall’omonimo paese. Alla scoperta di questa denominazione e dei vitigni autoctoni piemontesi grazie all’azienda agricola “Alle tre colline”.
La denominazione Albugnano DOC e l’Associazione Albugnano 549
La denominazione che abbraccia quattro comuni del territorio Astigiano (Albugnano, Pino d’Asti, Castelnuovo Don Bosco e Passerano-Marmorito) vede come protagonista il Vitigno Piemontese per eccellenza, ovvero il nebbiolo.
Il territorio
Le colline che si ergono sopra i 400m s.l.m. e la presenza di boschi danno il loro contributo a rinfrescare il clima, rendendolo idoneo alla coltivazione dello stesso nebbiolo su questo terreno di matrice marnosa. Già Pier De Crescenzi nel XIV secolo lodava tale zona e tale vitigno: “Quest’uva Nubiola è molto lodata nella città di Asti e in quelle parti” e in quello stesso secolo il nome del vitigno compare nei catasti di Chieri, paese non lontano da Albugnano.
La realtà, purtroppo, è che tale denominazione, nonostante siano presenti condizioni ideali climatiche, territoriali e storiche per tale vitigno, appare ai più misconosciuta.
La volontà dei viticoltori locali è quella di riuscire ad affermare tale area a denominazione, che conta 44 ettari, nel mondo vitivinicolo ed è per questo che nel 2017 è nata l’associazione 549, il cui nome fa riferimento al punto più alto del comune di Albugnano appunto 549m s.l.m.
L’azienda “Alle Tre Colline”
Uno dei 14 produttori che è attivo in questa rivalutazione territoriale è Franco Carossa, proprietario dell’azienda agricola Alle Tre Colline, che si trova a Albugnano. Il nome della cantina rievoca il fatto che questo paese si estende appunto su tre colline, quelle tre colline che Cristina, la moglie di Franco, vedeva quando tornava da Chieri verso casa.
Famiglia Carossa, storia, Piemonte, Albugnano
Seppur la storia della famiglia Carossa affonda le sue radici in viticoltura già all’inizio del 1800, è nel 1999 che Franco Carossa decide di fare il grande passo e di incominciare a non vendere solo vino sfuso, ma anche vini imbottigliati direttamente da loro.
Oggi l’azienda conta 35 ettari complessivi di cui 12 ettari a noccioleto e 13 a vigneto, in cui sono impiantati principalmente vitigni autoctoni piemontesi come la freisa, la barbera, il grignolino, l’albarossa e ovviamente il nebbiolo.
Unico vitigno internazionale presente è lo chardonnay, l’amore in bianco di Franco, che viene vinificato secondo tre lavorazioni: Chardonnay (vinificazione in acciaio e maturazione in legno), “An costi” (fermentazione in legno con conseguenza maturazione di 12 mesi a contatto con le fecce nobili) e “C’ha bugia”, novità del 2022, spumantizzato con metodologia classica con sosta di 24 mesi sui lieviti.
Attualmente Franco può contare sull’aiuto di tutta la sua famiglia: se Cristina, ex infermiera, ora è l’anima dell’agriturismo e delle lavorazioni con le nocciole, i tre figli Elisa, Paolo e Gabriella appena possono sono in azienda a “dare una mano”.
Partiamo dal più internazionale di tutti “An Costi” Piemonte Doc Chardonnay 2020
La fermentazione che avviene in barrique e la successiva sosta sulle fecce nelle stesse barrique per 12 mesi offrono a questo vino un corredo olfattivo variegato che abbraccia frutti esotici, come la banana, ananas, pompelmo, cedro, fiori gialli, leggere erbette aromatiche e vaniglia. L’impatto in bocca offre una sensazione calorica percettibile e una sapidità decisa. Si chiude con un finale leggermente ammandorlato.
E ora tuffiamoci nel mondo dei vitigni autoctoni: barbera, albarossa e nebbiolo accendiamo i riflettori su di voi!
Barbera d’Asti DOCG 2020
Il calice è impreziosito da un rosso rubino vivace. La freschezza della frutta rossa che spazia dal lampone, alle fragoline di bosco, alla ciliegia, la nota agrumata di arancia sanguinella con un eco di rosa e di mirto offrono un naso pulito e tipico di questo vitigno. Acidità schietta che spalleggia l’importante impatto calorico con tannini eleganti. Lunga chiusura con richiami fruttati.
Piemonte Doc Albarossa 2019
Prima di affrontare la degustazione due note su questo vitigno relativamente giovane. Nasce nel 1938 da un incrocio tra Nebbiolo e Barbera per volontà del Prof. Giovanni Dalmasso al fine di unire qualità e produttività. Solo più tardi negli anni Sessanta/Settanta gli studi ampelografici individuarono come progenitore, insieme alla Barbera, non tanto il Nebbiolo quanto lo Chatus (nebbiolo di Dronero).
Rosso carminio vivace. Non lasciatevi incantare dalle note delicate di fragoline di bosco, mora, rosa e dal leggero finale amaricante di rabarbaro e di radice di liquirizia con echi di cipria, tabacco e caffè perché in bocca entra con prepotenza con un’alcolicità importante e un tannino che richiede ancora un po’ di affinamento in bottiglia. Saremmo curiosi di provare delle vecchie annate.
Albugnano Doc 2020 (100% nebbiolo)
Elegante veste carminia vivace che propone richiami di fragoline di bosco, lampone, melagrana con note di rosa e violetta. In chiusura refoli di pepe nero. Interessante l’impatto in bocca in cui freschezza e tannicità si sorreggono regalandoci un finale lungo, quasi cioccolatoso.
È necessario spendere due parole sul nome che caratterizza questa etichetta in quanto richiama le parole che nonna Orsolina, al momento della vendemmia, indirizzava ai figli di Franco dicendo loro “Va’ Anait” (lett. “Datti una mossa”, “vai avanti”) perché anziché raccogliere l’uva pensavano a giocare tra i filari. Questa bottiglia rientra nella linea di produzione dell’associazione Albugnano 549 tanto che viene imbottigliata in un albeisa su cui è impresso il nome “Albugnano 549”.
Veste carminia con riflessi aranciati. Il naso ci racconta di una ciliegia sottospirito e in confettura, di una confettura di lampone, di arancia essiccata. Accenni balsamici mentolati e richiami di pot pourri e cuoio completano elegantemente il quadro olfattivo. Decisa freschezza e tannino setoso caratterizzano la beva, offrendo, nel contempo, una chiusura persistente.
Questo viaggio a Albugnano ci ha permesso di raccogliere una nuova identità del nebbiolo che in modo camaleontico sa trarre da ogni zona una sua peculiarità, non ci rimane che approfondire ulteriormente la conoscenza di questa realtà!
A CASCINA DELLE ROSE: oltre il Barbaresco Parte 1°
DI ELSA LEANDRI
Quattro zone:Barbaresco, Neive, Treiso e San Rocco Seno d’Elvio. Viene subito in mente il nebbiolo, che si esprime in questi territori con la sua eleganza e suadenza nel Barbaresco DOCG. E se “la regina delle uve nere” è sinonimo di Langhe, di Piemonte e fa sognare donne e uomini, italiani e stranieri, in realtà la sua coltivazione non è poi così tanto diffusa.
Sapete, invece, qual è il vitigno maggiormente prodotto in Piemonte? Andiamo a scoprirlo a Cascina delle Rose.
Cascina delle rose
Cascina delle Rose è una piccola realtà vitivinicola con sede a Barbaresco, in provincia di Cuneo, di 5,5 ettari, di cui 4 a vigneto. L’acquisto di tale proprietà avvenne nel 1948 ad opera di Beatrice Rizzolio, ma furono Giovanna e Italo, che negli anni Novanta, decisero di commercializzare quei vini che venivano prodotti per uso familiare.
Una sfida vincente che, oggi, vede coinvolti in cantina anche i figli Davide, in vigna e in cantina, e Riccardo, nella parte commerciale.
I vigneti della cantina sono collocati principalmente nelle zone di Rio Sordo e di Tre Stelle, due delle 66 Menzioni Geografiche Aggiuntive del Barbaresco.
Il territorio, vocato in connubio con l’attenzione che viene dedicata, non solo in vigna, ma anche in tutti i processi produttivi, regala prodotti degni di nota e se ne trova riscontro nei vini di punta dell’azienda il Barbaresco Tre Stelle DOCG e il Barbaresco Rio Sordo DOCG, vini ai quali si dovrebbe dedicare uno specifico articolo.
Cascina delle rose e la Barbera D’Alba 2016 Donna Elena
Oggi però andiamo alla scoperta del vitigno maggiormente coltivato in Piemonte: la barbera.
La famiglia Rizzolio infatti non si dedica unicamente al nebbiolo ma una parte della loro produzione vede protagonista, oltre che il dolcetto, anche la barbera nelle due versioni Barbera d’Alba Doc e Barbera D’Alba Doc Superiore Donna Elena, vino dedicato a “Zia Elena”, la sorella di Giovanna.
Quest’ultima è prodotta da una singola parcella della MGA Tre Stelle, in cui le terre sono magre con la presenza di marne argillo/calcaree affioranti in superficie, presupposti ottimali per produrre vini eleganti.
Barbera d’Alba di Cascina delle Rose
In degustazione la Barbera d’Alba Doc Superiore Donna Elena 2016presenta un manto rubino vivace con riflessi granato, che ci indica che siamo di fronte a un vino con una certa evoluzione. I sentori tipici della barbera, lampone e mora, si esprimono sotto forma di confettura, mentre l’iris essiccato lascia spazio a leggere note balsamiche.
In chiusura accenni eleganti di vaniglia e di cacao e, con l’ulteriore passare del tempo, l’impatto olfattivo si modifica spostandosi ancora di più sulle note terziarie e rivelando anche sentori di tabacco. Già da queste prime evidenze ci rendiamo conto che le aspettative dell’assaggio in bocca diventano molto alte.
Se in generale la barbera è sinonimo di acidità, quest’aspetto si riscontra nitidamente in questo vino: la freschezza riesce a bilanciare, insieme alla sapidità, quella nota alcolica importante (15%) regalando in questo modo un sorso appagante e pieno, con un’elevata lunghezza in bocca.
La famiglia Rizzolio, con questa barbera che si distingue per la sua eleganza rimanendo fedele alla sua identità, ci dimostra che su un terroir elettivo per il nebbiolo si possono produrre anche grandi barbera e quindi possiamo concludere dicendo: oltre il Barbaresco, c’è la Barbera d’Alba!
E ci tornano in mente le parole di Giosuè Carducci:
Gioia del Colle: Genesi e Futuro del Primitivo 2020 2019
Di Rosaria Benedetti
Nella culla del primitivo, dove queste uve hanno trovato antiche cure e innestato secolari tradizioni, l’Azienda Agricola Armònja sta realizzando un moderno progetto di valorizzazione del vitigno senza deviare dal solco di una mai sconfessata tradizione.
La Regola “Ora et Labora” dei monaci Benedettini e le testimonianze di dedizione e di buone pratiche enologiche degli eremiti Basiliani sono tracce storiche fondanti e indiscutibili che testimoniano la genesi antica della valorizzazione del primitivo nella zona di Gioia del Colle.
A farne poi un vero gioiello vitienologico hanno contribuito gli stessi viticoltori gioiesi che con intuito e determinazione, nei primi decenni del 19°secolo, hanno definito confini e mappe dei loro investimenti agricoli, consegnandoli contestualmente all’allevamento delle uve di primitivo del quale possono vantarsi di essere la storica italica culla.
Il pregio delle uve e di conseguenza del vino raggiunse livelli talmente elevati da costituire valore “economico” incluso nella dote della contessina Sabini di Altamura:
uno scrigno di preziose barbatelle fu infatti parte integrante del contratto delle sue nobili nozze con Don Tommaso, signorotto di Manduria, e siglò la “migrazione” del primitivo dalla zona di Gioia del Colle a Manduria e quindi la nascita dell’attuale Primitivo di Manduria.
Più tardiva ancora la conferma della corrispondenza genetica con lo Zinfandel californiano.
L’ambiente pedoclimatico e il vitigno Primitivo
Oggi il primitivo di Gioia del Colle viene coltivato in quella che è definita, la Murgia di Sud-Est, o Murgia barese, un esteso altopiano carsico, che raggiunge i 350 mt ca slm, arricchito da componenti argillose: una sorta di quadrilatero che si allunga obliquamente nell’interno della provincia di Bari verso la Basilicata nord-orientale.
Su questa terra rossa ricca di calcare, tra rocce affioranti che forzano le radici della vite a cercare la loro strada, si coltiva quello che era chiamato alla fine del ‘700 il “primativo”, l’attuale primitivo, una varietà robusta, caratterizzata da fioritura tarda e maturazione precoce, in grado di evitare eventuali condizioni atmosferiche avverse legate alla primavera e all’autunno.
L’allevamento tradizionale è l’alberello pugliese oggi affiancato sempre più spesso dal cordone speronato. La quota elevata in ore di soleggiamento e una piovosità scarsa contribuiscono alla produzione di vini che pur esprimendo un elevato tenore alcolico, possiedono una beva agile e raffinata.
Azienda AgricolaArmònja
Di recentissima costituzione, dal 2019, l’Azienda è proprietà di Giuseppe Latorre che si avvale della consulenza enologica di Benedetto Lorusso, mentre nel vigneto operano Vito Ferri e Vincenzo Racano.
Agli iniziali 3 ettari, in tempi brevissimi, se ne sono aggiunti altri per una proprietà attuale di 5 ettari di cui i due terzi già vitati e gli altri in fase di completamento.
Dedicati per ora esclusivamente alla produzione di primitivo di Gioia del Colle, i vigneti si estendono nella zona di Acquaviva delle Fonti, proprio nel centro della Doc, e hanno il loro cuore pulsante nella vigna più antica dove sono a dimora da più di 70 anni i ceppi storici allevati secondo il sistema tradizionale dell’alberello pugliese.
La sezione di vigneto più recente a cordone speronato, completa poi la produzione.
L’esclusività riservata al primitivo sarà integrata a breve dalla vinificazione di un bianco da uve autoctone, il minutolo di Gioia del Colle.
Note di degustazione Primitivo assaggiato
Le condizioni meteorologiche e le caratteristiche pedoclimatiche di questo altipiano collinare favoriscono una maturazione avanzata delle uve che vengono mediamente vendemmiate verso fine settembre o nella prima decade di ottobre, con gradazioni zuccherine elevate e conseguente potenza alcolica nel vino.
Quattro sono le tipologie di primitivo sulle quali si concentra oggi l’Azienda con risultati decisamente lusinghieri. Oltre all’IGT Puglia Primitivo Rosato “Lamarosa” e al Primitivo Gioia del Colle Doc Riserva “Terre di Monteschiavo”, sono pur nella loro diversità molto interessanti sia l’IGT Puglia “Primomiglio” 2020 che il più classico Gioia del Colle DOC “Corte Sant’Elia” 2019 che hanno entrambi il pregio di conservare nel vino il varietale gusto dell’uva di partenza.
Il frutto rosso domina sia al naso che in bocca nel Primomiglio, che si presenta con un colore brillante, rubino acceso venato di porpora.
Succoso e fresco con una trama tannica vivace e ben integrata, recupera in finale di bocca una nota agrumata di arancia rossa che favorisce nell’immediato un secondo sorso.
Complesso e armonico il Corte Sant’Elia poggia su una potenza alcolica importante ben mitigata nella beva da una precisa freschezza.
All’olfatto si intrecciano toni floreali di petali di rosa, note di piccoli frutti maturi, vaniglia e foglie di tabacco; il sorso è appagante, i tannini setosi, la chiusura intrigante grazie all’elegante velatura torbata.
Entrambi i vini conducono ad abbinamenti territoriali con presenza di carne, in particolare il Corte Sant’Elia.
Nella culla del primitivo, dove questo vitigno ha trovato antiche cure e innestato secolari tradizioni, l’Azienda Agricola Armònja sta dando vita ad un progetto affascinante.
A giudicare dalle premesse, la qualità dei loro vini contribuirà efficacemente a disegnare un moderno ritratto del primitivo di Gioia del Colle senza deviare dal solco di una mai sconfessata tradizione.
Alberello pugliese
L’allevamento della vite ad “alberello”, introdotto in Italia dalla colonizzazione greca nel VII sec a C. è una pratica viticola antichissima, che non fa uso di tutore per sostenere la vite.
La forma attuale caratteristica dell’entroterra barese, sia di pianura che di collina, ha forma “a vaso” con basso ceppo centrale dal quale si diramano due o tre branche con carico di gemme molto ridotto. Ne conseguono basse rese per ettaro ed elevata qualità.
Soggetta a varianti territoriali obbligate da microclimi di zona (es. variante “pantesca” o di Pantelleria con il ceppo infossato per la protezione dal vento) questa tecnica di coltivazione è presente in tutto il meridione soprattutto là dove è scarsa la disponibilità di acqua e dove il lavoro nel vigneto è svolto esclusivamente a mano.
I viaggi sensoriali di Carol sono la base delle mie ricette, ingredienti e amore
La mia gavetta nel mondo enogastronomico parte nel 1997, sono andata alla ricerca di informazioni sul cacao, elemento da me sempre amato.
Proprio dall’esigenza di comprendere la sua composizione e suoi benefici ha avuto inizio il mio viaggio.
Dopo qualche mese mi sono avvicinato al mondo vitivinicolo; mi sono formata e sono diventata un commissario enologico internazionale.
Con il tempo è cresciuto il mio desiderio di conoscere nella propria essenza ogni singolo prodotto gastronomico che potrebbe accompagnare ogni sorso degustato.
Con il passare del tempo sono diventata sommelier, chocholate taste tester, maestro Sun, e ho avuto l’onore di frequentare dei master impegnativi sulle tecniche di cottura degli alimenti, sulla micro-pasticceria, sulla cioccolateria artistica, sui sottovuoti, e tanto altro.
Amo ricercare, analizzare e abbinare ingredienti, esplorare tecniche di rielaborazione della materia che prima seleziono e scelgo appositamente nei miei piatti, là dove tutto diventa colore, equilibrio e consistenze.
Anni dopo anni…i viaggi sensoriali aumentano
Passano gli anni e la mia curiosità è cresciuta sempre di più.
Ho iniziato il mio percorso verso la programmazione neuro linguistica e verso il marketing, acquisendo una qualifica in marketing strategist e approfondendo sempre più il gusto italiano per quello che riguardano le mie competenze enogastronomiche.
Sempre affamata di conoscenze, sempre pronta a ogni sfida, sento l’esigenza di vivere di emozioni, di continue prove tecniche, di assaggi, di viaggi.
Colgo il bello in una pentola bruciata, vissuta da cotture veloci, da quelle lente, dagli ingredienti che spesso dimentico sul fuoco e l’odore di bruciato invade tutta la cucina.
Ciò nonostante mi sento gratificata, perché ho avuto la possibilità di sperimentare e di sbagliare.
Mi entusiasmo nel cercare soluzioni ai miei errori, ai calcoli sbagliati sulle dosi e ai tempi di cottura non precisi.
Dai miei errori inizio a consolidare la mia abilità di esecuzione e di risoluzione.
Imparo, sbaglio, correggo, insegno e scrivo, un nuovo viaggio, mediante la cucina asiatica che amo, quella sudamericana, la cucina medioevale, quella futurista che mi insegna ad apprezzare ogni consistenza e forma.
A volte penso di compiere un viaggio senza fine, di quelli che hanno senso solo se vissuti direttamente e non attraverso le foto o i racconti altrui.
Mi entusiasma sempre di più condividere i miei errori agli altri affinché questi non vengano ripetuti.
Ed è proprio questo percorso come insegnante che mi porta a frequentare sempre di più ristoratori, chef, cucine.
“Amo lo Champagne e il mio viaggio degli umami”
Cresce la mia esperienza come selezionatrice, occupandomi di prodotti enogastronomici per mercati esteri e per importanti e-commerce di settore.
Ne parlo ma anche ne scrivo e questo mi porta a collaborare costruttivamente con testate nazionali di settore. Non per ultima arriva la TV con alcune partecipazioni a trasmissioni televisive e, subito dopo, la radio con un mio format dal nome “Il viaggio degli Umami”, nel quale racconto le esperienze degustative in occasione di concorsi nazionali ed internazionali vinicoli.
Ciò mi porta a curare personalmente masterclass e degustazioni guidate in occasioni di eventi fieristici del settore.
Per quello che riguarda le attività audio, porto avanti altri progetti in parallelo, ad esempio la rubrica “In viaggio con Carol” con la creazione di podcast enogastronomici, che raccontano realtà produttive e territori, con le visite e interviste ai produttori.
In tutto questo strutturo squadre di collaboratori che mi seguono spesso in week end impegnativi, finalizzati al networking fra professionisti del settore.
Ancora anni dopo anni…i viaggi con Carol vivono di amore e sensorialità
La mia gavetta continua, non smetto mai di studiare, di aggiornare la mia conoscenza, i miei corsi diventano sempre più frequentati e le diverse Camere di Commercio mi ingaggiano per sviluppare progetti formativi.
Cantine sociali mi chiedono progetti di sviluppo territoriale e di identità produttiva.
Insomma, sfide su sfide, che accrescono la mia voglia di fare parte di questo mondo.
Qualche anno fa sono stata contattata da una casa editrice che mi chiesto di scrivere un ricettario, proposta che si è di fatto trasformata in un libro sulla gastronomia sensoriale, “Cena con Fattura D’amore”pubblicato a fine ottobre 2021 da Ronca Editore si tratta di un libro che ripercorre sotto forma di romanzo la gastronomia sensoriale, dove i sensi la fanno da padrone in ogni nostra azione.
La caratteristica di questo romanzo è proprio al componente di manuale e di crescita introspettiva personale per raggiungere lo scopo di stare bene attraverso la complicità dei sensi.
Sono passati due mesi e siamo già alla seconda ristampa, un successo inaspettato per me.
Scrivendo queste righe ho potuto guardare indietro il mio percorso con occhi diversi, con una consapevolezza totalmente priva di giudizio, anche se sento ancora il peso dei sacrifici e delle rinunce.
Sono soddisfatta di tutto il mio viaggio? Si, ma non è ancora finito, ci sono tante cose che devo ancora assaggiare, esplorare e conoscere.
La scrittura mi permette di registrare nel mio cervello ogni sensazione, ogni emozione che ho vissuto ad ogni morso e a ogni sorso.
Sono grata anche di questo, perché la ragazzina di vent’anni che approcciava questo mondo ora è una donna.
FoodandWineAngels?
Ho fondato la mia agenzia si chiama “FoodandWineAngels”, unica agenzia in Italia in grado di applicare le più avanzate attività di marketing intelligence al settore dell’enogastronomia.http://www.foodandwineangels.com
Ho una squadra di professionisti al mio fianco, facciamo valutazioni tecniche accurate di prodotti agroalimentari ed enologici, indagini di mercato basate sui più avanzati concetti di marketing intelligence, servizi di comunicazioni alle imprese e supporto alla vendita a livello di territorio nazionale e internazionale.
Questi sono solo alcuni dei tanti servizi che espletiamo nel panorama enogastronomico italiano.
Con lo staff di specialisti dell’agenzia garantiamo valutazioni approfondite organolettiche e degustative di prodotti, basandoci su schede tecniche di analisi che io stessa ho ideato e creato.
Crediamo, così, di dare un grande supporto alla nostra rete vendita, attraverso anche servizi di comunicazione avanzata mediante i canali tradizionale e digitali (giornalistici e social).
Insomma, sono molto orgogliosa di questa agenzia che prepara le basi per strategie commerciali avanzate e mirate, offrendo alle aziende-partner la soluzione dei numerosi problemi di vendita e di brand awareness che costituiscono oggi lo scoglio più arduo da superare nel settore enogastronomico.
In un mondo veramente complesso, fortemente concorrenziale, in cui la qualità e l’unicità dei prodotti deve essere evidenziata e portata alla luce nel modo più efficace.
Il mio obiettivo è quello del mio staff è quello di diventare un punto di riferimento per produttori e distributori, un partner che consenta di massimizzare le vendite e la presenza sul mercato, ma anche e soprattutto offrire a quei produttori che ancora non dispongano di una visibilità accurata e di una presenza capillare sul mercato una soluzione ai loro problemi.
“Il mio viaggio, quindi, ancora oggi, non ha una fine, ma solo mete da raggiungere”.