I vini di Francesca Fiasco in bilico tra il Cilento e il Vallo di Diano 2022
Di Gaetano Cataldo
È in località Campanaro, nel comune di Felitto, che l’azienda agricola di Francesca Fiasco ha avuto a costituirsi nel 2015. Il piccolo paese di Felitto è una delle perle dell’hinterland cilentano, conta meno di 1300 abitanti ed è la sede amministrativa dell’unione dei comuni dell’Alto Calore.
Territorio e Borgo
Questo borgo vede come centri abitati più vicini il comune di Castel San Lorenzo e quello di Roccadaspide, è diviso da Magliano Vetere da una costa montuosa frastagliata ed è separato dal torrente Ripiti, affluente del fiume Fasanella, da Bellosguardo, perfettamente incastonato tra il Monte Chianiello, il Monte Ceglie ed il Monte Cerzito.
Posto in bilico tra le alture del Cilento e del Vallo di Diano a 275 metri sul livello del mare il territorio felittese è tipicamente mediterraneo, vede la presenza dell’acero campestre, localmente detto occhiano, e dell’olmo, è immerso nella natura del Parco Nazionale del Cilento e Vallo di Diano e costituisce una vera e propria oasi di tranquillità, tanto da essere diventato sede eletta di lontre, volpi, cinghiali e furetti.
Curiosità, leggenda e mistero…
Esistono diverse storie sul borgo di Felitto che negli anni si sono tramandate da generazione a generazione, una di esse è legata al castello medievale. Secondo la leggenda, all’interno di esso ci viveva un Barone che, abusando del suo potere, chiedeva di diritto di trascorrere la prima notte di nozze con ogni nuova sposa, per poi rimandarla dal neo-coniuge.
Chiunque si sarebbe opposto sarebbe stato spedito, attraverso il trabucco, un’antica macchina d’assedio, nelle gole del Calore, perdendo così la vita, ma dopo parecchi anni, un giovane sposo un giorno decise di mettere fine a quella tale ingiustizia.
Il giorno delle sue nozze, i soldati sostavano come sempre fuori dalla chiesa, in attesa del termine della celebrazione per accompagnare la giovane al castello, però questa volta, a destinazione non arrivò la sposa, bensì lo sposo, che grazie ad un camuffamento riuscì a raggirare le guardie.
Il ragazzo, dopo aver colpito con una pugnalata il barone, lo scaraventò, come da rituale, nel fiume. Ben presto anche le guardie si arresero, travolti dalla popolazione che, incoraggiata dall’amore della sposa per suo marito, invase il castello.
I felittesi e soprattutto le giovani coppie, festeggiarono, attraverso canti e balli, la conquista della loro indipendenza e tutti vissero serenamente la loro prima notte di nozze.
Cantina
In un territorio pressoché inviolato insistono i vigneti di proprietà, circa sette ettari, e le radici affondano in suoli mediamente calcareo argillosi e, poiché siamo nei pressi delle Gole del Calore, a tratti non mancano i colori e le stratificazioni tipiche del Flysch del Cilento e la roccia carbonatica.
Con grande cura questa giovane donna si diletta tra vigna, produzione e vendita comunicandolo attraverso la sua presenza e voce con grande passione e impegno.
Non molto distanti dalla cantina di Francesca Fiasco i tenimenti agricoli sono vitati prevalentemente con vecchi ceppi di Aglianico, poi di Aglianicone e quindi di Fiano e Coda di Volpe con la presenza di altri vitigni, come ad esempio il Piedirosso, tra quelli più recenti messi a dimora ed altre varietà che di consuetudine vengono da sempre allevate anche nella vicinissima Castel San Lorenzo.
Vini
“Un grande vino nasce prima di tutto nel vigneto…
E’ da qui che ne scaturisce il recupero della naturalità nella coltivazione…” citazione presa dal sito
Quattro le referenze, tutte nel disciplinare Igt Paestum: i rossi Mèrcori, Difesa ed Ersa col bianco Lapazio.
Francesca Fiasco ha esordito con la sua prima annata nel 2016 grazie al supporto dell’enologo Emiliano Falsini e, dopo le successive vendemmie e tanto impegno, comincia ad affiorare la filosofia produttiva ed una linea produttiva protesa al miglioramento.
Dopo aver ereditato vigneti e passione dai nonni Francesca persegue l’ambizione di produrre vini di territori che sappiano narrare, con un certo filo edonistico ed estetico, la beltà cilentana con un tocco evidentemente femminile.
Luigi tecce: Anarchia Produttiva ed Uomini di ‘900.
Di Gaetano Cataldo
Chimica, barrique nuove, enologo di grido ed espianto di viti storiche… più o meno questa l’equazione propinata attraverso l’evangelizzazione delle guide fino a ieri l’altro.
Poi arriva lui fresco fresco, e come pochi a quei tempi, ha avuto la “presunzione” di appiccicare l’etichetta alla bottiglia che si faceva a casa per autoconsumo senza ricorrere alla consulenza tecnico-scientifica, con apprezzamenti immediati da parte del pubblico di consumatori e della critica, rendendo accattivante e provocatoria la bottiglia semplicemente facendo questo: citare in retro etichetta tutto quello che non si è mai sognato di mettere nel vino, cosa che oggigiorno è diventata più una cosa figa ed una faccenda di marketing che sana e genuina concretezza.Ah, nel frattempo ha restituito lo spirito contadino al vino irpino così come quasi non ce lo ricordavamo più e nobilitarlo come pochi.
Luigi Tecce
Lui è Luigi Tecce, classe del ’71. Non crede in Dio ma ad una prima occhiata pare sappia campare molto meglio di chi lo fa e vive i suoi tempi col distacco tipico di chi ha subito il fascino ed il successivo disincanto dai grandi ideali, facendolo da pragmatico e anche con una sottile vena da nostalgico sognatore, ma non ditelo a nessuno sennò finisce che perde la sua aria di strafottente.
Dopo il diploma in ragioneria si iscrive subito alla facoltà di economia e commercio e, conquistato l’esonero militare, giusto per farvi capire che il tipino in questione già sapeva quel che voleva, abbandona subito l’università ottenendo il suo scopo.
Nel mentre, come molti di noi in quegli anni d’altronde, vive quel momento storico in cui, dopo tangentopoli, sembrava fosse giunto il tempo per una grande ventata di innovazione e, col ’94, le prime elezioni fondate sull’onestà, assistendo invece alla frammentazione del Partito Comunista in tutt’altro e alla deflagrazione degli ideali della gioventù.
Il 20 Marzo del ’97, con la morte del papà ha ereditato una fattoria tradizionale, ultimo embrione di una anarchia produttiva; di punto in bianco la responsabilità e la fatica di portare avanti le vacche da latte, i vitelli, gli ulivi, tutta sulle sue spalle e la determinazione amorevole di riqualificare la vigna ereditata e conferire all’inizio il vino alle aziende come ha sempre fatto la sua famiglia, preservandone una quantità per il suo consumo personale, negli anni in cui la critica enogastronomica era univoca semplicemente perché non era critica e non si faceva massa critica.
Ogni anno però conferiva sempre meno, tenendo sempre più per sé, fino a decidere di diventare produttore nel 2003, anno ufficiale della prima annata.
Occhio vispo, sorriso sornione e volto scarno, tipico di quei consumati pescatori che fanno di una piccola barca la loro repubblica indipendente, anche se si tiene ben lontano dal mare, Luigi ha l’aria di uno che la sa proprio lunga, più o meno, specie con quella parlantina svelta poi, mediante la quale probabilmente nasconde un animo molto sensibile e costantemente in bilico tra lo slancio narrativo e misurato di un vignaiolo e quell’esigenza di riserbo sulla sua singolare persona, forse sospettosa per qualche disavventura con dei suoi simili, e su di un’epoca spazio temporale remota di cui pretende di essere custode.
Detesta il rumore e contempla il silenzio; dice di non avere un buon orecchio per la musica, ma andate a dirlo al suo amico Vinicio Capossela che lo aiuta a comporre i vestiti per le sue bottiglie e con il quale c’è questo traghettarsi vicendevole in un mondo onirico fatto di odissee moderne ed antiche credenze, un grande amore in forma chiusa per l’umanità e l’immagine del Mito che si cela nell’uomo comune, dervisci rotanti e chimere.
Luigi ama di Capossela la trasversalità ed il suo essere spugna, eternamente curioso ed aperto alla vita, , ascolta con piacere la musica classica, il jazz, la musica folk di un certo livello e Fabrizio De André, anche per un retaggio ideologico di una vecchia sinistra ormai andata.
Nel bene o nel male il vino è anche frutto degli umori, dei pensieri e delle emozioni di chi il vino lo fa e tutto ciò è paradigmatico nel suo Maman, dedicato a sua madre ed alla madre di Capossela: questa triangolazione di umanità immateriale dovette fondersi tutta quando Luigi ne imbottigliava l’unica edizione proprio mentre la mamma lasciava questa sonda terrena e la luce del suo bianco venne ricoperta da un velo di dolore e tristezza che molti scambiarono per difetto invece di un irrecuperabile pezzo di anima disciolto, tanto che decise venisse ritirato dal mercato.
E questo a dimostrazione di quanto il vino vivo subisca, nel bene o nel male, gli effetti delle emozioni e dei sentimenti dell’uomo che lo fa.
Agli esordi forse qualcuno dovette muovere qualche critica sul prezzo delle bottiglie probabilmente ma poi, quando arrivò a realizzare la fatica che serve a fare il vignaiolo e che i suoi vini non sono fatti per accontentare tutti, dovette ricredersi, inclusi i detrattori che urlarono allo scandalo nel 2011 per quelle innocue piantine di marijuana messe a dimora nel vigneto e che lo videro, naturalmente, scagionato da tutte le accuse. Luigi lavora bene tanto in vigna che in cantina, lo fa così bene che le bottiglie non gli vengono mai uguali e questo a dimostrazione che conosce il valore interpretativo di ogni singola vendemmia e come tirarlo fuori.
Ecco forse perché non legge mai quello che scrivono su di lui e sui suoi vini. E speriamo che non cominci proprio adesso…
Intervista
Qual è il tuo primissimo ricordo sul vino?
Mio nonno Luigi, classe 1902, amava tantissimo il vino bianco dolce, insomma quello lambiccato fatto col cappuccio di canapa. Da piccolo andai in cantina con una tazzina da caffè, la riempii con quel nettare e mi ubriacai per la prima volta. Avevo 4 anni.
Una frase che ti caratterizza…
Il non fare secondo propria coscienza non è né prudente né legittimo. Persone che ti hanno ispirato?
Proprio mio nonno Luigi. Avevo 11 anni quando se ne è andato ma mi è rimasta la sua impronta. I vecchi non sono necessariamente interessanti per via dell’età e quelli che hanno vissuto dopo di lui, andando avanti negli anni, sono appartenuti ad una storia recente, una storia dalla quale sono stati sopraffatti.
Nonno Luigi invece sì che era un vecchio interessante: apparteneva ad una generazione di uomini millenari per il loro legame ad una grande storia passata, un tempo molto più lungo e profondo di quello che abbiamo vissuto dopo le prime decadi del ‘900.
Cosa ti piace leggere?
Sono un amante della letteratura, della storia antica e della saggistica, anche se da quando pratico il mestiere del vino leggo un po’ meno. Flaubert, Herman Hesse, tutto Hemingway, Pavese e Svevo. Anche poesia: “I Fiori del Male” di Rimbaud, Neruda, Pedro Salinas e, di grande arricchimento per me, Charles Bukowsky. Il libro più importante per me resta sicuramente “Cristo si è Fermato ad Eboli”, poi “Il Rosso e il Nero” di Stendhal. Di John Fante adoro “La Confraternita dell’Uva”, costituisce per me il trionfo dell’uomo quotidiano contrapposto all’osannato uomo mito. Prima di ogni vendemmia leggo “Sparta e Atene. Il racconto di una guerra” di Sergio Valzania ma non chiedermi il perché.
E del cinema che mi dici?
Che per me è la seconda arte dopo la letteratura. Sono affascinato da questo componimento di letteratura visiva fatto di recitazione, sceneggiatura e regia. I film di e con Buster Keaton, i registi come Fellini, Ettore Scola, Vittorio De Sica, Sergio Leone, Stanley Kubrick, Akira Kurosawa e Pedro Almodovar non ti stanchi mai di vederli.
Dammi tre titoli…
Eh, tre titoli… complicato dartene solo tre. Facciamo “La corazzata Potëmkin”, “Quarto Potere” ed “Otto e Mezzo”.
Ed una frase tratta dal cinema che avresti voluto pronunciare?
Una carica di significato e per niente banale, quella di Alberto Sordi quando dice “Maccarone… m’hai provocato e io te distruggo, maccarone! Io me te magno!”.
A proposito di mangiare, cosa ti piace abbinare ai tuoi vini?
Intanto sappi che non condivido granché le rigide griglie degli abbinamenti, sono più per l’abbinamento anarchico all’inglese: “bevi quello che ti piace con quello che ti piace mangiare”. Amo decisamente gli abbinamenti storico culturali, questo perché sono loro a raccontarti dei luoghi e della tradizione di mettersi a tavola.
Alle volte ci vuole un vino buono senza grande personalità e senza troppe distrazioni per vivere al meglio la convivialità ed il buon mangiare. Se proprio devo darti degli abbinamenti penserei ad un cosciotto di agnello cotto al fieno col Poliphemo, col Purosangue un brasato di vacca podolica e col Satirycon una grande lasagna alla napoletana.
E col Maman? Il pane con la frittata oppure una zuppa di baccalà con qualche patata. Quando è che ci fai un altro bianco?
Per il momento accontentati di un rosato: è il frutto di uve aglianico vendemmiate nel 2018 e vinificate in bianco 2018. La Cyclope, un rosé che ambisce al lunghissimo affinamento.
Linea di demarcazione tra il Poliphemo ed il Purosangue?
Semplicemente il Poliphemo è più anarchico e figlio di viti vecchie ed irrazionali, mentre il Purosangue è aristocratico e proviene da una vigna più moderna.
Raccontami di qualche tua contraddizione….
Mi viene in mente una frase di Oscar Wilde… “La buona società è una cosa necessaria: farne parte è solo una gran noia, ma esserne fuori è una tragedia”.
Penso anche di avere la fortuna di provare la libertà indescrivibile che provano i vecchi di 90 anni nel dire ciò che vogliono dall’alto del loro vissuto ma facendolo con la sfrontatezza di un adolescente, senza essere fuori gioco, senza essere per forza oggetto di riverenza e senza essere fuori dal tempo.
Un tuo hobby?
A parte il mio mestiere, dei libri a me cari e del cinema di cui si è parlato prima nessuno. Avevo un grande legame con Ferruccio il mio cane, purtroppo è venuto a mancare lo scorso settembre. Ci ho rimuginato su parecchio ma oggi con me c’è un altro fedele amico: il piccolo Gino, mi segue sempre e sa già molto di me.
Cosa suggerisci di bere ai lettori di Papillae.it?
Suggerisco di bere qualsiasi tipologia di vino purché sia un vino fatto bene. Per imparare a bere però ed assumere una buona consapevolezza occorre metterci impegno, tempo ed energia fisica… con una certa autonomia di pensiero.
Il Sake e le Ostriche di vario tipo e provenienza 2022
Di Gaetano Cataldo
L’ostrica è un mollusco bivalve presente praticamente in tutti i mari, dove si riproduce e cresce liberamente; molti però sostengono, e a ragion veduta, che le migliori e più saporite ostriche non siano quelle selvatiche ma quelle di allevamento della costa francese che guarda all’Oceano Atlantico, verso il sud della Bretagna e nella regione del Merennes-Oléron anche se in realtà non mancano le eccellenze in diverse aree del Mar Mediterraneo e del mondo.
L’ostricoltura è diffusissima principalmente in Cina, Corea del Sud e Giappone; si pensi che circa il 70% della produzione annua di ostriche giapponesi proviene dalla Baia di Hiroshima… qui le ostriche sono chiamate “Latte del Mare”, sono molto apprezzate per dimensione, tenerezza e gusto, e sono rinomate soprattutto per le condizioni in cui crescono: i nutrienti di ben sei fiumi discendenti dai monti del Chugoku, che si riversano nella baia, ed il conseguente blend tra acqua dolce ed acqua salata rende questa specie ittica davvero speciale; nella classifica mondiale troviamo la Francia al quarto posto, prima in Europa, poi l’Irlanda e la Spagna.
L’ostrica concava del Pacifico, la Crassostrea Gigas, è la più coltivata al mondo, proviene dal Giappone ed è presente anche in altre aree di Oriente ed Estremo Oriente.
L’ostrica concava viene selezionata da molti allevatori europei grazie alla sua crescita rapida ed alla sua adattabilità: infatti a causa della scomparsa dell’ostrica portoghese, la Crassotrea Angulata, verso gli anni ’70 ha trovato vasta diffusione sul Vecchio Continente assieme all’ostrica piatta, detta Ostrea Aedulis.
Le due specie sono entrambe molto apprezzate dai consumatori di tutto il mondo anche se dal punto di vista gastronomico le ostriche piatte vengono ritenute più pregiate grazie alla morbida aromaticità e delicatezza della texture, mentre le ostriche concave o allungate sono generalmente più carnose e posseggono un sapore salmastro spiccato che le rende più persistenti.
Per poter ottenere le larve di ostriche necessarie agli allevamenti, dette anche “naissain”, si provvede alla captazione del novellame in ambiente marino aperto, oppure selezionando gli esemplari adulti per l’avanotteria.
Dagli stock di allevamento gli esemplari che avranno compiuto in media 18 mesi verranno prelevati per mezzo dei cosiddetti “plates”, piccole imbarcazioni dallo scafo e dalla chiglia piatta, portati fino alle aree adibite ad ostricoltura e disposti a seconda di come si intende allevarli.
Al giorno d’oggi esistono diverse tecniche di allevamento come ad esempio quella a “poches”, ossia la disposizione delle giovani ostriche in sacche consistenti in piccole reti di plastica, a loro volta disposte su tavole di metallo o a sparse al suolo di modo però che siano esposte alla risacca del mare, sacche che dovranno essere periodicamente rivoltate per garantire la crescita regolare di questi frutti di mare ed assicurare loro buone condizioni di vita ed un’ottimale circolazione dell’acqua di mare.
Il modello di ostricoltura cambia nella laguna mediterranea, ne sono un esempio lo stagno di Leucate e lo stagno di Thau, dove l’allevamento è verticale vista la scarsa escursione di marea e le ostriche vengono ancorate a corde vegetali a tre legnoli, oppure a corde sintetiche di nylon, piuttosto che a tavole di legno di mangrovia, ma sempre ad immersione permanente e con crescita più rapida rispetto agli esemplari allevati in Nord Europa.
Dopo la fase di pre-ingrasso ed ingrasso durante l’allevamento le ostriche passano alla rifinitura in apposite vasche o bacini di decantazione perché possano espellere melma e sabbia, dove talvolta degli iniettori di ossigeno aiutano a far affiorare i batteri nocivi in forma di schiuma facilmente eliminabile.
Caratteristici della Charente Marittima e della Vandea i bacini d’argilla alimentati da una miscela di acqua di mare e d’acqua dolce, detti “claires”, conferiscono alle ostriche un gusto particolare ed il tipico colore da “verdissement”.
Per quanto si suppone che l’ostricoltura sia stata avviata per prima dal popolo cinese non ci sono tracce evidenti e sufficientemente attendibili a dimostrarlo mentre, come la storia dimostra, questa pratica dell’acquacoltura pare più evidente essere stata inventata dagli Antichi Romani ed avviata persino nell’antica Albione da cui partivano cospicui carichi per Roma, tanto gli antichi latini ne andavano ghiotti e le reputassero indispensabili per la migliore riuscita di un banchetto:
fu così che da piatto povero, sotto Nerone, le ostriche divennero un piatto estremamente prelibato ed alla moda, tanto più che quelle provenienti dal Canale della Manica erano decisamente diverse rispetto a quelle che si raccoglievano lungo le coste della penisola italica, dell’Egitto e dell’Antica Grecia, ove il delizioso frutto di mare era considerato sì un cibo prelibato ma alla portata di tutti:
d’altronde il termine ostracismo, la pratica di votare o meno a favore l’esilio per un cittadino, si compiva proprio trascrivendo tale scelta su di una conchiglia di ostrica.
Naturalmente, per quanto le notizie scarseggino o non vengano valutate alcune fonti, le ostriche hanno costituito per millenni un cibo fondamentale per l’alimentazione umana grazie alla loro reperibilità e semplicità di consumo, tanto nell’area mediterranea quanto in Cina ed in Giappone: l’allevamento delle ostriche risale ad epoche remote e la singolarità dell’ostricoltura nel Sol Levante consisteva nell’impiegare rocce e canne di bambù a cui i bivalvi si attaccavano molto agevolmente.
Tra le ostriche piatte più famose vanno menzionate le Ostriche Belon, dalla tipica forma tondeggiante e dal gusto delicato, chiamate così perché un tempo venivano affinate esclusivamente sulle rive del fiume Belon in Bretagna, e le Ostriche Marenne, dal tipicissimo color verde acqua dovuto ad un’alga chiamata navicula blu che ne rilascia il colore… assieme all’Ostrica Pied de Cheval di Aquitania è tra le più care sul mercato.
Il recipiente più antico per bere il sake è la sakazuki, una coppa dall’apertura molto ampia fatta in terracotta o porcellana, finemente laccata e decorata, oggi disponibile sia in vetro che in oro o argento, in realtà però ne esisteva un altro ancora più vetusto e fornito dalla natura stessa: le conchiglie di ostrica.
In realtà la sintonia tra questi frutti di mare ed il nihonshu non si limita soltanto all’antica consuetudine di sfruttare la concavità dei loro gusci per favorirne la mescita: se è vero che il sake non litiga mai col cibo addirittura con le ostriche ci fa l’amore!
Le ostriche consumate crude ed il sake artigianale giapponese vivono un rapporto simbiotico che nessuna altra bevanda riesce a vantare, i due elementi hanno infatti delle caratteristiche simili che derivano dalla salinità, dalla tendenza dolce, dalla texture setosa e dalla cremosità che rendono entrambi compagni per la vita e per la gioia a tavola, ma c’è di più: l’umami!
L’umamiè la quintessenza del pairing tra ostriche e nihonshu
Costituisce il quinto gusto, quello che aiuta a bilanciare e migliorare gli altri quattro, ossia il salato, l’acido, l’amaro ed il dolce, traducendo appieno il sapore degli aminoacidi e nello specifico di glutammato, inosinato e guanilato… e guarda caso l’ostrica è tra i cibi più ricchi in natura di glutammato e di inosinato.
Ecco dunque spiegato attraverso queste straordinarie affinità elettive, di cui Madre Natura ha voluto dotare entrambi gli elementi, il perché bere sake e mangiare ostriche costituisce un abbinamento armonico perfetto. Si noti che, rispetto alla birra o al vino, il sake contiene mediamente una quantità di acido glutammico anche 20 volte superiore.
Ovviamente esistono delle prerogative che nell’abbinamento già congeniale tra ostrica e sake di per sé possono rendere il matrimonio ancora più felice…
Per quanto riguarda il frutto di mare terremo in considerazione quindi non soltanto la tipologia ma anche la provenienza, il rapporto tra acqua dolce ed acqua salata, la rifinitura, la modalità di apertura, il profumo, la consistenza e le caratteristiche gusto-olfattive.
Per quanto attiene al sake occorrerà fare invece attenzione all’umami, alla sapidità ed alla tendenza dolce: che il primo non superi quello dell’ostrica e che la seconda non sia particolarmente presente quando è già contenuta nel bivalve che, al contrario, se avesse una spiccata tendenza dolce potrà in questo caso giovarsi della sapidità di un otoko-zake.
Dunque la percezione di quanto queste caratteristiche comuni siano intense è fondamentale tanto quanto la persistenza aromatica dei due elementi in abbinamento ed il nihonshudo del fermentato giapponese: infatti un’ostrica dalle carni sode e dal gusto deciso vorrà un sake dal sapore più deciso e con una struttura più consistente, mentre un frutto di mare più delicato avrà bisogno di un sake satinato e gentile.
Alcuni esempi?Abbinamenti
L’Ostra Regal viene direttamente dall’Irlanda: trascorre i primi due anni di vita nella parte nord dell’isola, dove si nutre di fitoplancton, poi viene trasferita al sud presso la foce del fiume Snaney, dove le acque dolci ne completano l’affinamento. Un’ostrica dalla spiccata tendenza dolce con una consistenza tattile cremosa ed un finale di raffinata sapidità.
Un Junmai delicato ma con un carattere salino per tener testa alla prevalente tendenza dolce del bivalve. Si potrebbe persino azzardare con un cremoso e raffinato Junmai Daiginjo, stravolgendo le regole per un’esperienza sensoriale intrigante ed in sintonia con la texture dell’ostrica.
L’Ostrica Tsarskaya viene allevate a Cancale nella Bretagna Settentrionale, precisamente nelle aree di Park St. Kerber e della Baia di Mont St. Michel. Il gusto di questa varietà dal profumo iodato è ricco ed equilibrato al tempo stesso, il frutto è setoso e consistente con un gusto salino, una lieve nota di nocciola ed una bilanciata tendenza dolce.
Si abbina con piacevolmente con un Junmai Ginjo con una sbramatura del chicco attorno al 50% che conservi una buona nota cerealicola e che sia di grande equilibrio tra morbidezza, freschezza, sapidità ed umami. Ed uno sparkling sake? Perché no?
L’Ostrica Tarbouriech, di quelle proveniente dall’Emilia Romagna però e precisamente dalla Sacca degli Scandinavi, presso il delta del fiume Po:
è raffinata a partire già dall’aspetto, con quelle sue nuances rosa, si presenta all’olfatto con note salmastre e vegetali, mentre all’assaggio è consistente, succulenta e con una persistenza che orbita attorno a note vegetali sia marine che di sottobosco.
Un Junmai Ginjo affilato ed asciutto, capace di arginare la succulenza del frutto di mare e che ne raggiunga in persistenza le stesse vette.
L’Ostrica del Calvados è praticamente l’ostrica allevata più a Nord di tutta la Francia ed è stata premiata diverse volte nella categoria ostriche normanne.
Essa cresce proprio nella patria del famoso distillato di mele, ossia nel dipartimento di Calvados, precisamente nella Côte de Nacre, nei paesi di Asnelles e Meuvaines. È un’ostrica molto singolare in quanto riconoscibilissima grazie al suo guscio estremamente bianco, grazie alla limpidezza delle acque da cui proviene, e soprattutto per il suo sapore tendente all’aglio.
Le durezze e la nota iodata di questo frutto di mare, assieme al alla nota agliata, vorrebbero un sake morbido, persistente e con una buona nota umami.
Un Koshu Sake, prodotto con metodo Kimoto e magari invecchiato in grotta, sarebbe un abbinamento davvero piacevole.
L’Ostrica Special San Teodoro è un’eccellenza dell’ostricoltura in Sardegna: viene allevata a ciclo completo, ossia a partire dal seme, nella laguna di San Teodoro in provincia di Nuoro.
La conchiglia è tendenzialmente omogenea ed a forma di goccia, mentre il frutto è copioso e croccante, con note gusto-olfattive iodate ma con tendenza dolce, sentori vegetali e di frutta secca.
Un Tokubetsu Junmai fragrante, dai toni sia fruttati che erbacei magari.
L’Ostrica della Baia Hiroshima: immaginate questi esemplari di gran calibro arrivare alla vostra tavola direttamente dal kakifune, letteralmente barca delle ostriche. Preparate con la caratteristica ricetta kaki nabe, con porri, funghi e tofu, meritano certamente un Genshu Junmai, ma anche un Tokubetsu Junmai ci starebbe alla grande. Ci sono tra i Junmai dei veri e propri fuoriclasse che con le loro note burrose e boschive creerebbero comunque un match ad alto impatto emotivo e gustativo però.
Le ostriche, diversamente da quelle allevate che sono state modificate geneticamente e rese sterili, vedono il miglior consumo nel mese di gennaio ed anche in altri periodo dell’anno, eccetto che da maggio ad agosto, epoca di riproduzione, poiché in questa fase diventano più molli, lattiginose, meno saporite e soprattutto più deperibili.
Le ostriche di allevamento del tipo concavo sono classificate rispetto al calibro: dal 5 allo 0, rispettivamente dalle più piccole e dal peso di 30-45 fino alle più grosse che arrivano a superare i 150 grammi.
Inoltre, in base all’affinamento, si suddividono così come segue:
Fines: affinate in mare aperto per almeno 1 mese con densità di 20 ostriche per metro quadro. Speciales: affinate per almeno 2 mesi in mare aperto con densità di 10 ostriche per metro quadro. Pousse: se affinate per 4-8 mesi in mare aperto con densità di 5 ostriche per metro quadro. De Claires: affinate in bacini di acqua dolce poco profondi e argillosi, i claires appunto. Vert: affinate in presenza della microalga navicula blu, come menzionato in precedenza.
Composizione
Le ostriche sono composte d’acqua per l’85% circa, apportano 40 kilocalorie di proteine, 21 di carboidrati ed 8 di grassi per ogni etto e costituiscono una miniera ricchissima di sali minerali quali ferro, fosforo, potassio, rame, sodio e zinco, oltre che di vitamina B12, e sono considerate un alimento afrodisiaco per una ragione specifica: favoriscono lo sviluppo degli spermatozoi, fanno bene all’amore e pertanto è meglio tenere sempre una bottiglia di sake a portata di mano in camera da letto, assieme alle ostriche e ad una sana inventiva perché, afrodisiaco o non afrodisiaco, è il pensiero quello che conta.
Christina Chrisoula, Creta, il suo olio e il suo sogno 2022
Di Gaetano Cataldo
Il Mediterraneo è la patria indiscussa della varietà sativa di olea europea. L’ulivo, parte del trittico alimentare da sempre presente nella dieta delle popolazioni del Mare Nostrum assieme al grano ed alla vite, ha sempre avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel progresso delle civiltà sia in campo commerciale che simbolico: i suoi ramoscelli venivano associati alla gloria, alla pace e all’abbondanza.
Storia e olivicoltura collegata alle terre di espansione produttiva
Nel Partenone, il complesso scultoreo di Fidia riproduce l’ulivo al centro tra Atena e Poseidone: secondo la mitologia infatti la dea Atena piantò il primo ulivo sull’Acropoli come simbolo di vittoria contro Poseidone e da allora fu considerata la patrona dell’ulivo e le vennero dedicate le Panatenee ed i giochi panatenaici. Sin dall’antichità il frutto dell’ulivo ha avuto importanza primaria nell’alimentazione, nella religione, nella medicina e nella cosmesi.
A quei tempi l’olivicoltura si sviluppò proprio nel bacino orientale del Mare Nostrum in aree come la Mezzaluna Fertile, la Turchia Sud-Occidentale, la Siria e la Palestina, fino ad attecchire in Grecia e nelle sue Isole. Il popolo filisteo, il popolo egizio e quello cretese prosperavano proprio grazie alla coltivazioni di intere distese di uliveti ed innumerevoli sono le documentazioni e le prove storiche ad accertarlo: costituiscono una testimonianza importantissima i mortai a presse conservati al museo dell’ulivo delle industrie Sheman in Israele, che confermano la produzione di olio in quelle terre risalga al V millennio a.C.
In Egitto l’affresco tombale del faraone Ramses III, raffigurante i tipici vasi a staffa contenenti unguento e risalente al II millennio a.C., dimostra quanta valenza avesse l’uso d’olio di oliva nella cosmesi, mentre nella tomba di Tutankhamon (1341 a.C.- 1323 a.C.) raffigurano fronde e foglie di ulivo; infine, le enormi cisterne ed i grossi otri in pelle di capra fanno risalire la tradizione olearia sull’isola di Creta già in età Minoica ed altri reperti conservati presso il museo dell’olio di oliva di Kapsaliana Arkadi.
Per quanto attualmente la posizione di primato mondiale nella produzione di olio d’oliva sia detenuta dalla parte occidentale del Mediterraneo, col milione di tonnellate della Spagna, la Grecia ricopre comunque un ruolo di primaria importanza ed è destinata a scalzare facilmente l’Italia visto il trend negativo del 2016/2017: infatti, con una media annua di quattrocento ventimila tonnellate, è stato il terzo produttore mondiale d’olio d’oliva e la superficie coltivata ad uliveto copre circa un milione d’ettari con non meno di 150 milioni d’alberi (80% delle piante da coltivazione), occupando il 23.5% del territorio coltivato che, come giusto ricordare, ha una conformazione morfologica poco pianeggiante.
Sull’isola di Creta, territorio interamente riconosciuto come denominazione di origine per le peculiari caratteristiche, la coltivazione dell’olivo ha avuto un forte incremento negli ultimi 40 anni: infatti il numero di ulivi è di 35 milioni con una produzione di 120.000 tonnellate di olio. Gli uliveti a Creta ricoprono circa il 64.2% dell’area coltivata totale e costituiscono l’86% della superficie delle colture arboree ed i due terzi del totale sono in aree collinari e montuose.
L’olivo a Creta è coltivato sia su terreni poveri, prevalentemente rocciosi e con precipitazioni relativamente basse concentrate nei mesi invernali, che sui terreni fertili delle pianure in prossimità della costa. Generalmente, per mantenere la fertilità del suolo, gli agricoltori delle aree rivierasche utilizzano fertilizzante a base d’azoto e potassio; inoltre si provvede ad arare il suolo verso Marzo ed alla fine di Aprile, sia per eliminare la vegetazione spontanea che per facilitare la conservazione dell’acqua meteorica alla fine della stagione piovosa. Una seconda aratura è generalmente eseguita a fine.
Un altro metodo in uso è quello di lasciare incolti gli uliveti usando soltanto erbicidi per il controllo delle infestanti a seconda di quanto si voglia contenere la perdita d’umidità ed evitare la competizione vegetale per l’uso delle acque. Per le coltivazioni che si trovano su terreni in pendenza le pratiche di conservazione del territorio aiutano ad incrementare l’utilizzazione e la conservazione dell’acqua piovana, semplificando le pratiche agricole e minimizzando l’erosione del suolo.
Il terrazzamento costituisce la pratica più usata per la conservazione del suolo negli oliveti tradizionali, oliveti che sono andati via via riducendosi a partire dagli anni ’60, sostituiti da nuovi uliveti impiantati su terrazze costruite dai bulldozer di modo che la pendenza venisse rivolta verso l’interno e le cui distanze variano tra i sei e gli otto metri a seconda della pendenza del suolo. Le varietà principali presenti sull’isola sono la Tsounati, la Koroneiki, la Mavrelia e la Chondrolia.
Tra i primati più importanti dell’isola abbiamo l’ulivo di Vouves, nell’omonima villaggio del comune di Kolymvarinella situato nella regione di Chania, il quale si stima abbia almeno 3000 anni ed attrai 20 mila turisti all’anno.
Esaminando i risultati delle molte indagini condotte sulla popolazione dell’isola di Creta Ancel Keys ha potuto notare che i centenari erano particolarmente frequenti tra i contadini e che la loro colazione fosse spesso costituita giusto da un bicchiere d’olio d’oliva.
La storia di Christina Chrisoula è una storia affascinante, tipicamente mediterranea, ed è fondata su un lungo percorso che l’ha condotta a ripercorrere i luoghi della sua infanzia e le tradizioni della sua amata Creta.
Nata nel 1986 e cresciuta a Ierapetra ed originaria di una famiglia da sempre dedita alla coltivazione degli ulivi e alla produzione di olio per uso domestico, a 18 anni si è trasferita a Corfù per studiare alla facoltà di lingue straniere, traduzioni ed interpretariato presso la locale università. Sia durante gli studi che dopo la laurea ha viaggiato molto, vivendo in paesi come l’Irlanda, la Francia e la Spagna, sino a ricoprire il ruolo di Project Manager in una società di traduzioni ad Atene.
Parla fluentemente l’Inglese, lo Spagnolo ed il Francese e sogna di trovare il tempo per imparare a parlare anche l’Italiano, ma più di ogni altra cosa Christina desidera che l’olio extra vergine di qualità possa diventare patrimonio comune accessibile a tutti ed è per questo che ha deciso di tornare nella sua amata terra e diventare una produttrice affermata.
Da dove ha origine la tua passione per il lavoro da interprete e per i viaggi?
Ho sempre cercato di scoprire l’altro, nell’accezione di “estraneo”, capire cosa ci rende diversi e allo stesso tempo, cosa più importante, quali sono le caratteristiche che abbiamo in comune come esseri umani e che ci rendono più vicini.
E cosa ti ha insegnato?
Ad Atene ho cominciato a lavorare come stagista fino a diventare Progect Manager. La mia attività è durata ben sette anni e, guardandomi indietro, mi sento molto fortunata ad aver lavorato per la mia società perché mi ha insegnato cosa vuol dire la parola “professionalità”. Ho compreso grazie a questa esperienza ad assumere progetti e completarli con successo, risolvere problemi prendendomi le mie responsabilità, avere attenzione per il dettaglio sino ad imparare a soddisfare esigenze in base agli standard internazionali.
Più di ogni altra cosa ho compreso che la coerenza e l’impegno nel perseguire un lavoro di qualità alla fine ripagano sempre.
Quali sono i tuoi hobbies, cosa ti piace fare?
Naturalmente amo il buon cibo, adoro ballare il tango ed ascoltare la chitarra spagnola. Mi piace leggere e Nikos Kazantzakis è il mio autore preferito. Ovviamente trascorro con allegria il tempo nei nostri uliveti, faccio escursioni e, per quanto in inverno ami fare alpinismo, non posso vivere lontano dal mare!
Cosa ti ha riportato a casa?
Credo fosse scritto. Non importa quanti passi ho fatto per andare lontano perché ho sempre guardato indietro verso Creta. È un luogo speciale perché mantiene vive le proprie tradizioni e l’influenza che esercita su noi abitanti, quasi come un magnete, è molto forte e definisce a grandi linee chi siamo. È un’isola con una cultura ricchissima ed una storia molto lunga, ma possiede un grande paesaggio ed innumerevoli diversità. E poi è circondata dal Mar Mediterraneo che dispensa ai suoi abitanti i suoi doni con abbondanza.
Naturalmente questa attrazione è dovuta anche al legame con la mia famiglia. Prima coi miei nonni e poi con i nostri genitori io, mia sorella Anthousa ed i due fratelli minori Yiorgos ed Antonis abbiamo sempre partecipato alla raccolta delle olive. I miei ricordi sono intrecciati all’aria di festa che si creava in campagna e all’allegria di portare il raccolto presso il frantoio.
Questo stretto contatto con la terra e i nostri ulivi, l’odore e il sapore dell’olio di oliva fresco sono stati impressi profondamente nel mio cuore e nella mia mente. Tornando indietro nel tempo tutti questi ricordi che ho mi riconducono a me da bambina giocando vicino agli alberi secolari di ulivo, starci appesa o giocando a nascondino tra di essi.
E cosa ti ha portato a cambiare lavoro?
Come dicevo prima ed anche in questo caso il ritorno ai legami familiari, alle origini e all’amore per gli ulivi sono state le prime motivazioni ma molti altri fattori mi hanno portato a prendere questa decisione e la crisi economica ancora in atto in Grecia è stato uno di essi. Per quanto io e mio fratello Antonis, che ha sposato assieme a me il progetto, abbiamo operato una scelta affettiva personalmente credo che tornare alla terra ed alla produzione agricola sia l’unica via di uscita. Potrei sembrare ottimista ma credo che gradualmente sempre più giovani stiano cominciando a rendersi conto di questo.
Perché hai deciso di diventare una produttrice di olio?
Dopo essere ritornata abbiamo da subito deciso di acquisire più olivi e di portare la nostra consueta produzione di famiglia al livello successivo: fare la nostra bottiglia d’olio extravergine di oliva. Abbiamo da sempre condiviso coi nostri parenti la quantità di olio che eccedeva dal nostro fabbisogno familiare e dunque perché non pensare di renderlo disponibile anche ad altre persone?
Credo sia molto importante dare la possibilità a quante più famiglie possibili di poter mettere a tavola un prodotto unico, la cui storia si perde nel tempo, noi a casa abbiamo da sempre goduto dei vantaggi inequivocabili che l’olio d’oliva conferisce alla salute e credo che chi si occupi di alimentazione, a prescindere dal suo ruolo, debba provvedere anche a rendere il pubblico più consapevole sull’importanza di assumere una dieta sana.
Con la mia famiglia ci stiamo impegnando per ottenere un olio extra vergine di oliva di qualità superiore che possa diventare fonte di nutrimento che ogni genitore dia ai loro figli, renderlo accessibile a tutti.
Il cibo è soprattutto nutrimento di qualità, un bene comune da preservare.
La Cultura alimentare è molto sentita a Creta ed il tavolo dove si affronta questo dibattito sempre attuale coinvolge famiglie, amici, l’intera comunità e questo perché l’alimentazione più umile ma fatta con amore ed ingredienti umili costituiscono l’invito più naturale possibile per invitare il prossimo a sedere con noi, facendo dell’ospitalità anche il motore della comunicazione per Creta.
Più di tutto la mia è una vera e propria ricerca personale sul benessere e sulla felicità: il contatto con la natura ha sempre avuto un effetto sorprendente su di me. Quando ho realizzato di trovare qualcosa di creativo da fare ho pensato automaticamente ai nostri uliveti. Lavorare la terra è qualcosa che mi ha sempre fatto felice.
Dove sono ubicati gli uliveti?
Come ho già detto sono cresciuta a Ierapetra ma le radici della mia famiglia provengono dalla regione di Sitia e più precisamente nel piccolo villaggio di Zakros, verso l’estremità orientale di Creta. È qui che crescono gli uliveti, un posto isolato, giusto un piccolo punto sulla mappa, ma un luogo di particolare bellezza e ricco di storia, proprio dove la terra di Creta si tuffa lì dove nasce il sole.
È una terra aspra e ostile a prima vista, ma molto generosa per coloro che sanno prendersene cura e la coltivano con amore. L’olivicultura e la produzione di olio evo sono legate a Zakros da più di 3500 anni. Infatti nel 1961 gli scavi a Kato Zakros hanno portato alla luce il palazzo minoico; era un porto di grande importanza all’epoca e le navi partivano per scambiare materie prime e prodotti agricoli con Cipro, l’Egitto ed il Medio Oriente.
Non di meno è importante sapere che durante gli scavi furono trovati un piatto con olive conservate e un mulino di pietra utilizzato per la produzione di olio d’oliva.
Del bere responsabilmente e della clamorosa balla del french paradox 2022
Di Gaetano Cataldo
La bevanda più civilizzata al mondo è di moda e la moda dice che fa anche bene. Era già in voga berla con erbe aromatiche nel 3150 a. C. per fini terapeutici; testimoni le tracce assorbite in anfore rinvenute da archeologi americani in terra egizia. D’altronde i benefici di questo liquido erano noti a Plinio il Vecchio, Galeno ed Ippocrate.
La Scuola Medica Salernitana ne citava le proprietà farmacologiche dal 984 d. C. quando l’Istituto Superiore di Ricerche di Parigi, la Facoltà di farmacia di Bordeaux e la Minnesota University semplicemente non esistevano.
Intanto l’osannato elisir, il vino, fa parlare di sé dai tempi del cuneiforme quantomeno.
Però sono gli epidemiologi d’oltralpe a spiegare il perché giovi in risposta al french paradox, ossia all’incidenza di malattie cardiovascolari in Francia, nonostante la dieta ricca in grassi saturi, sia pressoché pari a quella dei popoli dediti alla più salubre dieta mediterranea, imputandolo al suo consumo; ad avallarlo anche i dietologi americani che lo includono nella piramide alimentare a due bicchieri per volta, anzi, al giorno (300 ml per l’uomo e 150 ml per la donna, rispettivamente 40 e 20 gr di alcool).
Ma che sia rosso per piacere!
Infatti il limitarsi della formazione di coaguli e trombi è dovuta all’alcol con l’interazione di alcune sostanze contenute in gran quantità nei vini rossi e dagli effetti antiossidanti. Un nome per tutti: il resveratrolo; si tratta di un fenolo non flavonoide contenuto solo nel rosso, che si trova anche nella buccia di uve prodotte da viti attaccate prevalentemente da botrytis cinerea, stress idrici e virus.
Ci sono piante che ne producono quantità superiori alla vite ed è per ciò che questa fitoalexina oggi è un integratore dietetico, per quanto non se ne conoscano ancora gli effetti collaterali.
Per quanto stimoli la produzione di colesterolo buono (HDL) e diminuisca l’ossidazione del colesterolo cattivo (LDL) non ce n’è abbastanza nelle quantità di vino raccomandate (bisognerebbe berne molto di più) e l’organismo tende a non trattenerlo.
Insomma il vino fa bene soggettivamente e farebbe bene assumerlo nelle suddette quantità assieme a frutta e verdura.
Ricerche
Sono in corso comunque delle ricerche per stabilire se alcune sostanze contenute nei vini bianchi, agendo in modo combinato, diano risultati migliori dal punto di vista della salute sul sistema cardiovascolare.
Però la salute non è solo un bene da ritrovare attraverso la scelta soggettiva di migliorare le proprie abitudini alimentari, non solo; essa un diritto che deve essere concesso al nascituro sin dalla gravidanza.
Bere vino…
Bere vino perché il resveratrolo è anche antiteratogeno è una contraddizione in termini perché contiene alcol, causa di aborto, malformazioni e della sindrome alcolica fetale. Il vino e l’alcol sono un’ingiuria alla vita nascente e al delicato concetto di essere madre.
Il vino nuoce alla gravidanza e all’allattamento e non bisogna sottovalutarne gli effetti solo perché il bambino abbia avuto la fortuna di nascere senza danni apparenti: turbe comportamentali, difficoltà di concentrazione e apprendimento non vengono respinte dalla placenta né disciolte dal latte materno.
Di Gaetano Cataldo
Ricordiamoci che…
non bisogna abusare del vino e dell’alcol, se assunti in quantità eccessive e in maniera permanente, l’alcol compromette lo stato nutrizionale, favorendo i deficit vitaminici, inoltre, determina un cambiamento della composizione corporea, con diminuzione della massa muscolare con conseguenza di aumento del deposito adiposo viscerale.
Nel piccolo borgo di Montemarano vivono meno di 3000 abitanti e la cittadina sorge alle pendici del Massiccio del Tuoro, a sinistra del fiume Calore e molto vicino al torrente Chionzano.
Si tramanda che la città sia stata fondata dal generale sannita Mario Egnazio il quale, stando allo storico Appiano d’Alessandria, sconfisse l’esercito romano nei pressi del monte Toro, facendoli tornare a casa carichi di meraviglie. Sulla sommità del colle dove oggi sorge la cattedrale di Santa Maria Assunta, dove una volta si ergeva il tempio di Giove ed oggi si conservano le reliquie di San Giovanni.
Sede vescovile dal 1059 e successivamente contea nel 1082, con a capo Riccardo Caracciolo detto il Rosso, Montemarano vide un lungo periodo di declino a causa della peste tra il 1600 ed il 1700.
Restano però le testimonianze di un glorioso passato: tra gli episodi della vita di San Francesco, raccontati nel ciclo di affreschi di Giotto nella Basilica Superiore di Assisi, ce n’è uno dedicato alla morta di Montemarano, raffigurante il miracolo che vide una donna del paese resuscitata per mano del santo, fatto tramandato nel “Trattato dei Miracoli” ed “La Leggenda Maggiore di San Bonaventura di Bagnoreggio” di Tommaso Celano.
I Montemaranesi
Persone fiere i montemaranesi… scacciarono bizantini e longobardi per quanto male armati, sono molto legati alla loro terra da sempre e, nonostante i rovesci di fortuna, da secoli continuano a festeggiare il miracolo dell’esistenza col rito gioioso della tarantella montemaranese: tradizione millenaria estatica di grande coinvolgimento e panacea contro gli spiriti maligni.
Visitare Montemarano
Visitare Montemarano, specialmente durante la Sagra del Vino, il Carnevale Montemaranese e la Festa del Bosco, è un must per il visitatore che voglia avere una chiave di lettura profonda del contesto storico culturale irpino, ma anche semplicemente per fare una passeggiata nel romanticissimo nell’area medievale posta al centro della città.
È qui che prende forma il sogno di Emanuele Coscia, titolare della cantina Delite, formatosi attraverso gli studi di viticultura ed enologia presso l’Istituto Enologico “Francesco De Sanctis di Avellino, un sogno che gli fa battere forte il cuore mentre si occupa amorevolmente della vigna e che lo fa battere a chi beve i suoi vini.
Cantina Delite
Il nome della Cantina Delite nasce dall’acronimo composto dal cognome di suo nonno, Generoso De Lisio, dal nome di sua nonna Italia ed appunto da Emanuele: un nome che diventa arco temporale che lega passato e tradizione con presente ed innovazione, tutto però nel pieno rispetto di ciò che è stato fatto in precedenza e tramandato al giovane vignaiolo.
Di tutto il “Taurasi-shire”, terroir che esprime poliedriche sfumature organolettiche ed espressività, Montemarano è il comune che conferisce in media caratteristiche più austere al vino destinato alla docg: infatti la viticultura montemaranese è tipicamente pedemontana poiché si pratica ad un’altitudine media di 640 metri sul livello del mare e che, grazie alla vicinanza dei monti Picentini, viene influenzata da un clima continentale con importanti escursioni termiche; queste rallentano la maturazione delle uve, favoriscono lo sviluppo di una grande carica sia tannica che acida, ed imprimono meglio le profumazioni.
Questo territorio ha origine in epoche geologiche molto remote, epoche in cui tutto era ricoperto dal mare, come testimoniano le sabbie di natura fossile ivi che, assieme al pietrisco calcareo ed ai lapilli, frutto delle eruzioni vulcaniche del Vesuvio, rende la tessitura dei suoli in cui le viti affondano le loro radici, suoli a prevalenza argillosa, molto complessi e disomogenei passo dopo passo.
Emanuele si prende cura di sei ettari di terreno, ripartiti in tre lotti in prossimità della cantina: questa distribuzione, per suolo ed esposizione costituisce per le uve Aglianico e la stessa cantina una fonte di grande ricchezza e diversificazione in quanto, grazie ad un’agricoltura di precisione e la gestione della chioma ad esempio, si possono ottenere non solo risultati tali da poter meglio interpretare la vendemmia ma persino prevenire i disagi del riscaldamento globale sia rispetto al ciclo vegetativo della pianta che riguardo alla vinificazione.
I Vini
Il risultato prodotto da tutto questo lavoro, anche grazie all’aiuto dell’enologo ed agronomo Arturo Erbaggio, uomo virtuoso della viticultura campana ed interprete della sostenibilità e dell’enologia coerente, si misura il appena 2500 bottiglie, un condensato di lavoro genuino e tipicità, ripartito in tre referenze:
Aglianico Irpinia Doc “Generoso”, vino molto ancorato all’identità del luogo, rustico ed appagante
Campi Taurasini Doc “Nonna Seppa”, dedicato alla madre di Generoso e che ne onora la memoria, frutto della selezione migliore delle uve e con una elegante mineralità, molto espressivo dell’andamento vendemmiale
Taurasi Docg “Pentamerone, ispirato all’omonimo libro di Giambattista Basile, dal vivido e complesso bouquet, equilibrato nel corpo e destinato ad una grande longevità.
Conclusione
Praticamente scoperta da Fabio Oppo, professionista del settore enologico e specialista in marketing del vino, la Cantina Delite convince per piacere anzitutto ai montemaranesi e poi per essersi fatta valere in alcuni contest internazionali ove, grazie al suo carattere affatto internazionalizzato, i suoi vini hanno ottenuto degli importanti risultati. Emanuele Coscia è decisamente una giovane promessa nel panorama vitivinicolo irpino e non si può che augurargli Buon Vento ed Ottime Annate.
Gioi e la sua Soppressata tra Storia e Sapori 2022
Di Gaetano Cataldo
La piccola cittadina di Gioi è incastonata nel cuore del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano nella media valle dell’Alento ad un’altitudine che sfiora i 700 metri sul livello del mare e fa parte della comunità montana del Monte Gelbison e Monte Cervati; ubicata sul costone roccioso di una collina dalla quale è visibile la Catena Serra, Gioi si affaccia su due burroni i cui fondi valle si ricongiungono presso la pianura della Selva dei Santi ed è attraversata dai torrenti Fiumicello e Fosso.
Ambiente
Boschi di castagni e lecci si alternano ai querceti abitati da volpi, cinghiali, gufi reali, tassi, marmotte e ricci; dalle ripide vigne ed attraverso gli uliveti si gode di un paesaggio superbo e dall’alto spessore naturalistico, arricchito dalle vedute sui monti sino al Mar Tirreno, abbracciando con lo sguardo un perimetro azzurrato che si estende dall’isola di Capri a Capo Palinuro, passando per l’antica città di Elea.
Per quanto Gioi, con la sua unica frazione Cardile, conti circa 1300 anime, non manca di essere un luogo ricco di storia e fascino: anche se le prime notizie ufficiali, reperite mediante un diploma della Badia di Cava de’ Tirreni, si fanno risalire al 1034 è stata accertata la presenza degli Enotri che qui costruirono fortezze e rifugi, presidi successivamente rinforzati dalle popolazioni coloniche della Magna Grecia tanto da far presumere l’etimologia del nome di questo borgo cilentano gli derivi dalla trascorsa presenza di un antico tempio pagano dedicato a Giove.
In seguito Gioi divenne anche roccaforte prima romana e poi longobarda, accrescendo il suo prestigio in epoca normanna, quando divenne baluardo difensivo della Rocca dei Novi e quando, grazie agli Aragonesi, la sua fama di centro amministrativo e commerciale giunse sino in Toscana per via dei manufatti in legno, cuoio e lana, nonché per l’allevamento di bachi da seta.
Attrazione
Tra i principali luoghi di attrazione i ruderi della Cinta Muraria Medievale, del ponte, della Cappella del San Salvatore, del Castello e della Porta dei Due Leoni, unica superstite delle sette porte che garantivano l’accesso nel borgo fortificato.
Da segnalare le chiese dedicate a San Eustachio e a San Nicola per le quali Gioi è conosciuta con l’appellativo di “città dei due campanili”, il Convento di San Francesco del 1466 e la Chiesa di San Giovanni Battista, suo santo patrono, risalente alla seconda metà del ‘500 e, non ultimo, il Palazzo Baronale col suo antico frantoio e la Cappella della Madonna del Carmine; infine, da non perdere, i sentieri che ripercorrono le antiche mulattiere, i tipici mulini ad acqua ed il Lago Lavinia.
Presidio Slow Food
Lo scorso 23 giugno Gioi è stata insignita del Diploma di Certificazione consegnato durante l’assemblea internazionale di Slow Food a Mirande in Francia, entrando di fatto nella rete delle città Slow.
In questa graziosa cittadina, piccola gemma del Cilento, terra famosa per la Dieta Mediterranea, non possono certo mancare primizie e leccornie di prim’ordine, la più nota delle quali è la soppressata.
La soppressata di Gioi è un presidio Slow Food tra i primi in Italia, la cui produzione è autorizzata oltre che a Gioi e Cardile anche nei comuni limitrofi di Orria, Piano Vetrale, Salento e Stio.
Per risalirne alla tradizione bisogna ripercorrere le rotte della transumanza, ove l’incontro tra pastori cilentani ed abruzzesi è evidente nella contaminazione produttiva che vede somiglianze con la mortadella di Campotosto, per via del lardello centrale e della pezzatura, anche se l’insaccato gioiese risulta più schiacciato; andando ancor più a ritroso è possibile risalire attraverso il secondo tomo “Delle Cose Rustiche” del 1793, scritto da padre Gaetano Niccola Onorati, detto Columella, al fatto che che addirittura la soppressata di Gioi era nota ed apprezzata già nell’XI secolo, riconoscibile per essere l’unico salame campano lardellato.
Un tempo prodotto con l’autoctono suino nero cilentano, oggi viene ottenuto dai filetti, dai lombi e dai prosciutti di large white, duroc e landrace e loro incroci, allevati sul posto con alimentazione naturale, dal peso non inferiore ai 190 kg e di 12 mesi di età.
Le carni magre vengono lavorate nei mesi più freddi, accuratamente private di nervature e cartilagini, macinante finemente amalgamandole al sale marino e al pepe nero in grani, senza conservanti; vengono fatte riposare per almeno 10 ore per poi essere insaccate manualmente in budello naturale, inserendo quindi il lardello centrale, ricavato dal collo del suino.
Generalmente questa soppressata viene anche affumicata, oppure sosta in ambiente termo-condizionato per poi affinare in cantina ed essere stagionato, in ogni caso, per un periodo compreso tra i 40 ed i 45 giorni; talvolta, oltre che sottovuoto, viene conservata in vasi di vetro sottolio oppure nello strutto e, secondo una tradizione legata all’emigrazione dei gioiesi verso le Americhe o in Australia, viene inserita addirittura nel caciocavallo.
Degustazione
All’esame visivo esterno presenta una buona regolarità e risulta omogeno nel colore del budello su cui hanno attecchito le muffe naturali, mentre al tatto risulta consistente e compatto; la fetta, cedevole alla pelatura, si presenta di un colore rosso vivo omogeneo e leggermente marezzato, senza evidenti fessurazioni e di buona coesione persino in prossimità del lardello centrale.
All’esame olfattivo si avverte il profumo della nocciola tostata e delle note salmastre che si accompagnano ad un leggero sentore di affumicato e speziatura.
Con media capacità di masticazione, all’assaggio si avverte un buon equilibrio con una riconferma dei sentori di nocciola a conferire una piacevole persistenza aromatica di buona intensità, con sapidità calibrata ed accenni di pepato stemperati dalla scioglievolezza del grasso.
Abbinamento territoriale
con un Aglianicone in purezza della denominazione Paestum Igt del 2015 senza alcun affinamento in legno:
il colore rubicondo, quasi tendente al viola, la piacevole consistenza, il profumo ancora vinoso con note succose di gelsi rossi, ciliegia in confettura con accenni piperiti, i suoi tannini più delicati rispetto all’Aglianico, una piacevole verve acida e tendenza alle morbidezze, lo rende un compagno ideale.
Assenzio, la Fata Verde rivelato tra Leggende Metropolitane e Decadentismo 2022
Di Gaetano Cataldo
Prendete un calice, versatevi del senso di disfacimento e di contrasto sociale, un po’ di smarrimento della coscienza unito alla crisi dei valori di fine ‘800 e aggiungete un sano disgusto per quella stessa borghesia, conformista e perbenista, che prima aveva combattuto per il trionfo degli ideali nel 1789 e che, dopo essere divenuta depositaria dell’economia per i propri interessi, aveva voltato le spalle alle masse popolari.
Adesso mescolate il tutto col disprezzo per l’imperialismo, che spacciava la sete di espansione per civilizzazione, metteteci una buona dose di insostenibile leggerezza dell’essere, di voglia di evadere la realtà e aggiungete un pizzico di sfiducia per positivismo e scienza: otterrete un’epoca di dilagante cinismo, di vittimismo, malinconia e autodistruzione… insomma otterrete proprio quello che ci vuole per ingenerare quella caratteristica ventata di follia fantasmagorica tanto cara a quel simpatico gruppetto di libertine, intellettuali e stravaganti canaglie: i poeti maledetti.
Per meglio descrivere il simbolismo e il decadentismo in Francia, cosa che in fondo faremo fare ad altri e che costituiscono semplicemente un pretesto, occorre però citare un altro ingrediente almeno, qualcosa di ascrivibile ad una formidabile sorsata di veleno… si, veleno tanto era amaro, o di alcolico tocco intuitivo, se preferite, una sorta di elisir dell’ispirazione, un cazzutissimo passepartout per aprire le porte della percezione insomma: l’assenzio.
L’Assenzio…
Ehi, che v’aspettavate il latte + come in Arancia Meccanica, magari con The Doors che suonano un motivetto dal vivo in qualche caffè letterario verso la fine del XVIII secolo?
Spiacente, per quanto il quadretto sia carino in effetti, ma il latte era roba da ricchi all’epoca e non veniva certo in mente di macchiarlo manco col caffè, inoltre Stanley Kubrik, Jim Morrison & company, che ve lo dico a fare, non erano ancora apparsi sulla Terra, però con la Fata Verde, come venne soprannominato l’assenzio, un viaggetto ci veniva niente male… o almeno è quello che si va raccontando.
Alla Fata Verde infatti vennero attribuite le caratteristiche psicotrope tipiche delle droghe attuali, tanto da indurre i consumatori a credere che si potesse assurgere alla conoscenza e all’ispirazione attraverso il mondo onirico, la trance e le allucinazioni con qualche bevuta.
Piace crederlo, ma non è così: ce ne volevano massicce dosi, magari condite con qualche goccia di laudano… si la tintura madre di oppio, avete presente?
Fatto sta che l’assenzio, d’altronde come altre bevande e cibi del tempo, veniva contraffatto da sporchi affaristi con sostanze adulteranti e nocive quali alcol metilico, cloruro di antimonio, calamo aromatico, tanaceto comune, rame, solfato di zinco, indaco, con lo scopo di ottenere che qualche brodaglia di superalcolico assumesse il tipico colore verde.
Senza ombra di dubbio l’uso sconsiderato di assenzio procurava effetti collaterali che vennero già ben documentati verso la prima metà del XIX secolo… convulsioni, ipotensione da vasodilatazione, diminuzione del ritmo cardiaco e difficoltà respiratorie e ne nacque una sindrome, l’absintismo, caratterizzata da iniziale benessere, successive allucinazioni e profondi stati depressivi, al giorno d’oggi la chiameremmo fase down. Émile Zola comunque ne descrisse le gravi intossicazioni nel suo romanzo L’ammazzatoio, pubblicato nel 1877.
Hai voglia tu a puntare il dito contro il tujone… e a trovarcelo magari in quegli intrugli!
Purtroppo in quella robetta da due soldi, fatta per dissetare il bestiame della povertà, il terpene contenuto nell’assenzio latitava, ed erano principalmente i veleni impiegati dai contraffattori la prima causa di effetti gravissimi sulla salute.
Bisogna anche considerare però, e questo grazie agli studi del chimico e biologo americano Ted Breaux, che durante il decadentismo i migliori assenzi raramente contenevano più di 20-30 mg di tujone per litro, la media si aggirava intorno ai 10 mg… pensate che le attuali normative CEE prevedono e ammettono la vendita di “absinthe” fino a un limite legale di 35 mg di tujone per litro che, per risultare nocivo dovrebbe essere elevato a 50 gr a litrozzo. Per dovere di cronaca andrebbe pure aggiunto che il tujone è molto simile per tossicità ad anetolo e fenitolo per tossicità, quindi che dovremmo fare? Bandire piante come prezzemolo, salvia divinorum e non, alloro e rosmarino?
Il punto però è semplice: per quanto l’assenzio sia fatto a regola d’arte e come Dio comanda, proprio per permettere la stabilizzazione della clorofilla in esso contenuta, bisognava arrivare ad una gradazione alcolica compresa il 45 ed il 75%, mica birra con la gazzosa, e come si sa l’alcol è tossico quindi ad un certo punto con l’assenzio, fosse pure quello fatto dai monaci cistercensi della certosa di Vattelapesca, a furia di alzare il gomito qualche mostro ce lo devi vedere per forza. O no?
La febbre da assenzio era decisamente alta e per dimostrarne la crescente se non forsennata sete, basta riportare le statistiche dell’epoca: dal 1880 al 1910 la produzione di Fata Verde era passata da 700 mila a 36 milioni di litri!
Una definizione dell’absinthe attribuita ad Oscar Wilde diceva più o meno questo:
“Dopo il primo bicchiere, vedi le cose come desideri.
Dopo il secondo, vedi le cose come non lo sono.
Infine, vedi le cose come sono realmente,
che è la cosa più orribile al mondo”
Però piaceva l’assenzio, altro che no, ma il suo declino, a parte le cause di natura sociale e le cervella che si sfragolavano a padri e madri di famiglia che ne ingurgitavano massicce dosi, n’ecatombe nazional popolare in pratica, lo si deve attribuire più che altro ad una campagna di vera e propria demonizzazione da parte dei commercianti di vino e di altri superalcolici, per tutelare chiaramente i loro interessi, e che ebbe come esito la proibizione al consumo nel 1915.
La messa al bando dell’assenzio fu pedagogica ed infame allo stesso tempo: ma ce lo vedete voi un povero cristo, vittima di absintismo e squattrinato, a raggiungere quelle fiere vette alcolemiche a furia di bere rossi borgognoni a caso, tipo Grand Echézeaux?
La proibizione in Francia
Indipendentemente dalla denominazione e dalla provenienza qualsiasi altro vino, rispetto all’assenzio, costava decisamente caro. La proibizione in Francia però fu facilitata anche grazie al divieto di bere assenzio imposto dal governo svizzero dieci anni prima a seguito di un fatto di cronaca nera: Jean Lanfray, un contadino di 31 anni, bevve a stomaco vuoto tanto di quel vino, cognac, brandy, crème de menthe e giusto un paio di bicchierini di assenzio, che uscì letteralmente fuori di testa, tornò a casa ed uccise la moglie e le due figlie per poi suicidarsi.
Vabbè che l’assenzio sarà stata la fatidica ciliegina sulla torta ma Jean il disidratato s’era già bevuto l’ira di Dio intanto e senza possibilità di smaltita. E poi dicono che la Svizzera è neutrale!
Ma chi inventò l’assenzio e com’è fatto?
La bevanda antesignana dell’assenzio risale al 1600 a C. ed era diffusa in tutto il bacino del Mediterraneo ed in Asia Minore, veniva preparata esclusivamente per infusione con artemisia ed anice verde. La macerazione avveniva in acqua perché la si potesse disinfettare, renderla più sicura ed aromatica, ma ciò poteva avvenire anche con il vino, ottenendo in entrambi i casi degli ottimi digestivi. L’infuso era molto apprezzato dai greci ed infatti assenzio deriva dalla loro lingua: apsinthion, ossia privo di dolcezza.
Ufficialmente fu inventato dal medico francese Pierre Ordinaire, che riparò in Svizzera nel 1792 per sfuggire alla Rivoluzione Francese, precisamente nella cittadina di Couvet, piccola frazione del comune di Val-de-Travers del Canton Neuchâtel.
Il dottor Ordinaire, come d’altronde i medici di campagna a quel tempo, utilizzava le erbe officinali per preparare medicamenti e rimedi naturali e, nella zona dove si trasferì, trovò anche l’artemisia absinthium di cui ben conosceva le proprietà tramandate dagli antichi e fu così che cominciò a preparare un forte distillato a partire dalla macerazione delle erbe di circa 60°, contenente non solo l’assenzio maggiore ma anche piante come anice, issopo, dittamo, acoro e melissa… Il liquore divenne prese subito fama di toccasana in quell’area e fu a Couvet che prese il soprannome di Fée Verte.
Fée Verte
Prima di passare a miglior vita il dottor Ordinaire affidò la ricetta segreta ad Henriette e Suzanne-Marguerite Henriod, non si capisce bene però se fossero sorelle oppure madre e figlia, mentre altre versioni vorrebbero invece che fu la signorina Grandpierre, governante del dottore, a consegnare loro il procedimento. Infine, alcuni sostengono che le Henriod avessero già la ricetta ben prima dell’arrivo del medico francese in Svizzera e questo perché amari e liquori a base di assenzio erano preparati comuni nelle valli montane dell’Europa Centrale:
il Wermut ad esempio, nome tedesco dell’artemisia maggiore, era un liquore piuttosto antico e si beveva mescolandolo al vino.
Al di là di quella che potrebbe essere la versione più accreditata che le signore Henriod cedettero nel 1797 la ricetta dell’assenzio al maggiore Daniel Henri Dubied è ormai storia, il resto lo fece la figlia di questo maggiore svizzero che decise di andare in sposa ad un certo Henry Louis Pernod.
Da queste nozze venne fuori al maggiore Dubied l’idea di costituire assieme al figlio Marcelin e suo genero una società che dà vita alla prima fabbrica di assenzio al mondo nel 1798: la Dubied Père et Fils. È proprio quest’anno che avviene un cambio paradigmatico nella concezione dell’assenzio, che passerà da medicinale e digestivo ad aperitivo.
Visto il grande potenziale del verde liquore e dopo la rottura col genero ed il cognato avvenuta nel 1805, Henry Louis Pernod si persuade a portare l’assenzio in Francia ed aprire una produzione tutta sua a Pontarlier, chiamandola Pernod Fils, diversamente dagli omonimi che nel 1860 fonderanno ad Avignone la Pernod Père et Fils e che 24 anni dopo si lanceranno anch’essi nella produzione dell’absinthe.
Da qui agli asti ed alle battaglie legali sarà un nonnulla ma nel 1928 le due famiglie si metteranno d’accordo, dando vita ad una delle più potenti corporate nel settore degli alcolici al mondo: il gruppo Pernod-Richard.
Artemisia Absinthium
L’assenzio quindi è prodotto dalla macerazione dei fiori e delle foglie di artemisia absinthium, pianta erbacea della famiglia delle asteracee diffusa in tutt’Europa, semi di anice verde e di finocchio che, una volta distillato, viene trattato con delle erbe in infusione quali melissa, issopo, artemisia pontica, menta, genepì, coriandolo, veronica, badiana ed altre appunto, a seconda della ricetta e per la volontà di conferire ulteriori aromi, la tipica freschezza dell’anice e il colore caratteristico, variabile dal giallo chiaro a tutte le tonalità del verde a seconda delle scelte del produttore.
Pertanto il distillato, giova ripeterlo, si ottiene per distillazione dell’intera pianta, previa macerazione della stessa in alcool alla quale si possono aggiungere, oltre alle già succitate essenze, persino camomilla, radici di angelica, scorze d’agrume, noce moscata, vaniglia e resina di mirra.
Un mondo poliedrico quello dell’assenzio, ricchissimo di sfumature aromatiche e di interessantissime variabili, mutevoli a seconda dell’estro, della filosofia e dello scopo di chi lo produce nel voler realizzare un assenzio di gran pregio e che possa lasciare il segno.
Nel tempo, come già detto, se ne sono diffuse di opinioni tanto errate quanto diffuse sull’assenzio, non di meno sulla maniera di berlo! Il rituale classico vuole si beva in un bicchiere a bolla sul cui bordo si appoggia il classico cucchiaio forato con una zolletta di zucchero disciolta direttamente con acqua ghiacciata, mentre la versione della zolletta flambata è stata erroneamente diffusa dalla filmografia e dalla consuetudine nata in Repubblica Ceca per creare l’effetto wow tra i turisti, propinando loro un surrogato e fomentando associazioni errate con l’eroina.
Uso passato dell’assenzio
L’uso di allungare l’assenzio con l’acqua fu introdotto dalla milizia francese in rientro dall’Algeria verso il 1830, la quale contribuì molto a diffonderne fama e consumo… l’assenzio veniva impiegato come disinfettante, aiutava a prevenire problemi di malaria e dissenteria, possedeva inoltre, ieri come oggi, proprietà toniche per l’organismo: è infatti colagogo, ossia favorisce lo svuotamento della bile dalla cistifellea, è emmenagogo, cioè stimolante della mestruazione o comunque dell’afflusso di sangue in area pelvica, ed è notoriamente febbrifugo.
Nelle opere di Charles Baudelaire, precursore del simbolismo, e nelle poesie di Paul Verlaine, Arthur Rimbaud, Villiers de L’Isle-Adam, Tristan Corbière e Stéphane Mallarmè, rivivono le pagine di un’esistenza segnata dall’assenzio, dalla miseria, dagli scandali e dall’eccesso, ma pur sempre un’esistenza riscattata dalla poesia, poesia creata per suscitare impressioni intense ed emozioni fino ad allora sconosciute.
Grazie al simbolismo decadentista e a quei folli pindarici slanci tesi a voler superare i limiti imposti dalla coscienza attraverso un “lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”, come direbbe il “poeta veggente”, vennero sperimentate, con folgorazioni ed intuizioni, figure retoriche come l’analogia, la metafora e la sinestesia… la metrica tradizionale dovette cedere il passo al verso libero e all’alchimia del verbo.
Ma il prezzo da pagare, per una vita votata ad atteggiamenti eccentrici, ai “paradisi artificiali” e a morbosi compiacimenti, fu quell’irrazionalità che ha nulla di romantico e che altro non è che la frustrazione per l’incapacità di impegnarsi nella società, superando l’emarginazione e la non comunicazione; un’irrazionalità questa che costringe lo scrittore-poeta decadentista a piegarsi in se stesso anziché farsi portavoce della crisi popolare, ricercando nell’individualismo e nell’oblio l’alibi dell’ignoto piuttosto che ricercare gli stimoli a trovare il coraggio di vivere e lottare per migliorare il proprio presente.
Poco poetico ma follemente attuale!
Oltre ai versi dei poètes maudits anche la pittura di artisti del calibro di Édouard Manet, Vincent Van Gogh e Pablo Picasso, ha contribuito ad immortalare l’assenzio ed i luoghi di culto dove si consumava il rito della “heure verte”: il Cafè de Cluny, il Cafè Guerbois, iI Cafè Riche, il Cafè de Bade, Le Lapin Agile ed il Nouvelle Athènes, locale reso ancor più celebre grazie a “Dans un cafè”, quadro del pittore Edgar Degas del 1876… pennellate di storie di vita vissuta tra bistrot e caffè letterari dal tramonto di periodo di fermento e tormento all’inizio della Belle époque.
Colori e zone produttive
A voler distinguere gli assenzi è molto importante considerare aspetti come il colore, il tenore alcolico e la zona di produzione. Per quel che attiene al colore infatti un tempo si distinguevano l’assenzio blanche, ossia non colorato per ulteriore infusione di erbe dopo la distillazione, verte, cioè quelli che dopo essere stati distillati vedono un’aggiunta di erbe perché rilascino i pigmenti, hanno un profilo aromatico ricco di elementi botanici, la pienezza e la complessità gusto olfattiva.
Infine abbiamo gli absinthe la bleue: nati dopo la messa al bando della Fata Verde in Svizzera, per uso domestico o per contrabbando, venivano distillati in maniera decisamente molto casalinga per mezzo di alambicchi a fiamma diretta… per quanto non posseggano la raffinata eleganza dei blanche, coi quali hanno in comune solo la trasparenza, oggi se ne apprezza l’artigianalità ed il gusto ruvido e l’impiego di erbe officinali autoctone.
Rispetto all’alcol l’absinthe si distingue in ordinario, quando la gradazione è compresa tra i 40 ed i 50°, semi fine, se tra i 50 ed i 55°, fine quando arriviamo tra i 55 ed i 60° e poi l’assenzio di qualità superiore alcolicità compresa tra i 60 ed i 72°, ricordando però che questo distillato può raggiungere anche i 75°.
Naturalmente tra le prime aree produttive va citata la Svizzera, paese che per primo si è battuto contro la contraffazione della Fata Verde, mettendo sotto tutela il distillato col disciplinare IGP Val-de-Traverse Absinthe nel 2012, disciplinare che arriva finalmente anche per la Francia il 19 agosto del 2019 grazie a François Guy, tra i principali produttori di Pontarlier.
Bevuto anche in Spagna che, come Portogallo e Regno Unito, non lo ha mai bandito, per quanto ne abbia visto il declino attorno agli anni ’40, oggi se ne producono validissime versioni in terra catalana con una ripresa al consumo già a partire dal 2007.
In Italia l’assenzio non ha mai conosciuto una diffusione tale come in Svizzera o in Francia e malgrado ciò venne ugualmente bandito ma con ritardo:
nel 1939 furono i fascisti a proibirlo più per imporre rigore che per un reale allarme sociali… ma ve li immaginate certi bellimbusti brindare al loro duce con un bel bicchiere di vermouth, perfettamente legale per quanto ne contenesse eccome di artemisia absinthium, ed il barman che se ne stava dietro al bancone a sbellicarsi dalle matte risate?
Oggi in Italia ci sono diverse realtà industriali ed artigianali e, non a caso, la Distilleria Pascale è tra le aziende storiche d’Italia e la più vecchia in Campania, nascendo ad Ottaviano nel 1810 come opificio medicale rinomato per la produzione di liquori ed amari artigianali di pregio.
In realtà le peculiarità dell’assenzio vanno scorte nell’origine delle materie prime e nella maestria e nell’esperienza delle diverse distillerie sparse per l’Europa: per avvicinare gli estimatori ed i curiosi nel 2007 è stata creata la Route de l’Absinthe, che parte da Fontaine Froide du Creux-du-Van e termina a Pontarlier, sfiorando diversi opifici dove s’è fatta la storia della Fata Verde.
Come si fa a riconoscere un Assenzio di qualità?
Intanto non lasciandosi fregare dall’aspetto: un colore verde brillante, manco fosse una spremuta di smeraldi e malachite, spesso è frutto di colorazione artificiale mentre, come si è già detto, le sfumature dell’absinthe sono fatte anche di tonalità più pacate che vanno dal giallo al verde non troppo acceso fino all’azurro, dal marroncino al rosso, come nel caso unico di Un Emile Rouge, o addirittura se ne possono vedere neri, i quali prevedono aggiunta di frutti selvatici a bacca nera, e di quelli trasparenti cui si è già fatto cenno.
Fattore determinante per l’esame visivo dell’assenzio è lo sviluppo della louche, ossia quella nebulosa lattiginosa che si propaga lentamente dal fondo del bicchiere fino a pervadere tutto il contenuto e che si ottiene aspergendo poche gocce di acqua alla volta… il rapporto, se decidete di annacquarlo dovrebbe essere di tre parti di assenzio ed una di acqua, ma cinque ad uno sarebbe meglio, anche perché berlo liscio costituisce la vera esperienza di assaggio, se poi siete in vena di battezzarlo affari vostri.
Organoletticità e sensorialità
All’esame olfattivo l’assenzio deve possedere una buona intensità e complessità, senza che la nota alcolica arricci il naso e senza che il sentore dell’anice verde, men che meno quello stellato, sia prevaricante, lasciando debitamente spazio all’erbaceo dell’artemisia maggiore e di altre essenze, insomma un bouquet tutt’altro che monocorde… in alcune tipologie si avverte chiaramente la nota di elicriso, fieno essiccato e grano saraceno.
All’esame gusto-olfattivo l’impatto tattile deve conferire percezioni suadenti, cremose e quindi la densità gioca un ruolo determinante nella degustazione, inoltre un assenzio di qualità non deve essere eccessivamente amaro e non deve risultare alcolico, poiché ciò potrebbe essere un segnale della presenza di code, piuttosto che integralmente dal cuore del processo di distillazione.
Infine il sapore deve poter conferire riconoscimenti che vanno dall’erbaceo alla frutta essiccata, dal floreale a quelli tipici del cognac o del brandy, fino ad un certo tipo di speziato, purché il tutto sia in equilibrio e con una persistenza aromatica intensa di buona durata.
Ai prodi che si sono indefessamente avventurati nella lettura giungendo fino a qui debbo suggerire di farsela un poco di introspezione, perché un qualche problema ci dev’essere visto che l’assenzio non si spiega ma si beve. O no?
Conclusioni
Intanto è bene ricordare che oltre ai vari vermouth, l’assenzio in quanto a varietà botanica, è presente nel Benedectine, nello Chartreuse e nel Genepì, oltre che in moltissimi altri amari, inoltre il distillato è parte fondamentale della preparazione del famoso Sazerac, il primo cocktail ad essere miscelato negli States in quel di New Orleans, inventato dal farmacista Antoine Amédée Peychaud, padre dei bitter aromatici, nel 1830.
Stando ai francesi l’assenzio andrebbe bevuto come aperitvo, precisamente à boire avec modération, accompagnato da crostini con acciuga marinata, magari pigramente e senza dover per forza di cose eseguire la liturgia del rituale, bensì avercelo bell’e versato direttamente dall’apposita fontana.
Potreste anche immaginare di abbinarci dei biscotti all’anice o del cioccolato fondente aromatizzato all’artemisia absinthium mentre ascoltate L’importanza di essere Oscar Wilde dei Marlene Kuntz oppure The Spy dei Doors… la prima se siete costretti ad ubriacarvi per passare il tempo tra gli idioti, come direbbe Ernest Hemingway, e la seconda se state affianco alla vostra musa.
Poi se siete proprio fissati col latte + aggiungetevi il Mansinthe di Marilyn Manson ma non fate i “tujoni” e bevete consapevolmente.
Intervista Anton F. Börner delle cantine Ômina Romana 2022
Di Gaetano Cataldo
Ômina significa “buoni presagi”, termine ispirato dalla consuetudine degli Antichi Romani di ricavare i vaticini dalle osservazioni della meteorologia, dei pianeti e degli asterismi per comprendere l’andamento del raccolto.
Ômina Romana, cantina fondata nel 2007, si ispira proprio agli auspici che le terre romane rivolgono a chi è dotto nella conduzione dei campi ed alla rinascita dei vini laziali, riprendendo antiche tradizioni mediante un modello innovativo e di controllo di tutti i processi favorevoli alla viticultura ed all’enologia, allo scopo di elevare, fino alla loro massima espressività, prodotti enologi mono varietali da cultivar come Cabernet Sauvignon, Cabernet Franc, Merlot, Viognier, Chardonnay e Cesanese, selezionati da anni di studi incrociati sul clima e sulla vocazionalità dei terreni.
Fondatore di questa realtà enologica è il dott. Anton F. Börner, capitano d’industria e uomo poliedrico che riunisce nella sua forma mentis tratti analitici ed umanistici al tempo stesso: infatti, di origini bavaresi, di cui conserva la grande affabilità, è teutonica mente statuario e metodico, ma persino appassionatamente mediterraneo, è nato ad Ingolstadt nel ’54, ed il motto “credo ut intellegam” definisce perfettamente la sua maniera di essere e di agire, ossia quello di un imprenditore scafato che deve poter sempre credere fermamente al suo progetto, averne la visione e praticarla con la ragione.
Dapprima diplomato al liceo classico, si è poi laureato in economia e commercio nel 1979, ha occupato ruoli al vertice degli asset strategici dell’economia tedesca ed è tutt’oggi presidente onorario della Associazione Federale Tedesca del Mercato all’Ingrosso, del Commercio Estero e dei Servizi. Studi di psicologia, filosofia e teologia sono parte del suo background culturale, assieme alla passione per il mondo classico greco e latino e per l’archeologia.
Con una solida esperienza internazionale parla fluentemente inglese, francese, italiano e spagnolo, possedendo inoltre una buona conoscenza base di arabo, giapponese, greco moderno e portoghese.
A livello europeo il dott. Börner ha ricoperto ruoli strategici ed infatti è stato membro della Fédération Européenne des Grossistes en Appareils Sanitaires et de Chauffage, inoltre dal 2000 al 2004 è stato vicepresidente di EuroCommerce a Bruxelles che, all’interno dell’Unione Europea, è un’associazione che rappresenta le federazioni nazionali del commercio di 31 Paesi e le maggiori aziende di vendita al dettaglio e all’ingrosso di tutta Europa.
Ama i cani, ne possiede ben 4 tra cui un labrador, e gli piace moltissimo il trekking.
È un vero gourmet, conosce perfettamente la gastronomia italiana, predilige il pescato e la cacciagione e si diletta a cucinare a cucinare, anche se ammette che sua moglie Anna Maria, lo fa decisamente meglio ed è la sua costante fonte di ispirazione.
Ha quattro figli ma è con Katharina Börner, managing director, che gestisce Ômina Romana, cantina la cui conduzione enologica è affidata a Simone Sarnà.
Qual è il primissimo ricordo che ha del vino dottor Börner?Ero con i miei genitori ed avevo appena 5 anni, ci trovavamo in vacanza proprio in Italia sul lago di Garda. Ricordo che un simpaticissimo cameriere mi portò un poco di vino rosso mischiato con dell’acqua, rassicurando tutti che era buona consuetudine e dicendo, molto sorridente, che mi avrebbe fatto bene. Aveva proprio ragione!
E quand’è stata la prima volta che le è venuta l’idea di fare vino?L’idea mi sfiorò precisamente nel ’92 anche se non se ne fece nulla: era il periodo del crollo della lira e furono tantissime le offerte pervenutemi da cantine piemontesi, chiedendomi di acquisirle.
Cosa l’ha spinta ad investire in una cantina e perché in Italia?
Ho sempre avuto una grandissima passione rispetto al mondo dell’agricoltura ed ho sempre creduto che l’unico segmento di questa attività, dove una persona possa esprimere una visione, sia la viticultura.
Infatti del vino si può narrare l’origine, la storia prima ancora che esso diventi tale e questo perché il vino ha la sua individualità. Il vino consente lo sviluppo di un progetto imprenditoriale complesso ed appagante sotto ogni punto di vista, poiché esso riesce ad esprimere la bellezza di diverse attività umane, indispensabili alla sua piena realizzazione, tutte assieme. L’Italia è il Paese del Vino e ciò è motivo ulteriore di fiero appagamento.
Ci racconterebbe della sua passione per l’archeologia, creando magari un parallelo tra questa scienza ed il vino stesso?
L’archeologia ha il fascino di riscoprire cose nascoste e che risalgono ad epoche remote. Questa grande scienza riesce a svelarci ciò che è stato il mondo antico, un’attività determinante per che aiuta a comprendere meglio la società odierna tramite le consuetudini del passato. Attraverso lo studio del vino possiamo vedere il passato, il presente ed il futuro, oltre che una sintesi spirituale tra le forze della terra, il genius loci quindi, e la mano dell’uomo.
Non occorre pertanto che citi le innumerevoli scoperte durante gli scavi, tanto sulla terraferma che sott’acqua, di reperti, come ad esempio le anfore, che ci aiutano a ricordare le origini del vino e che creano appunto un ponte tra archeologia e viticoltura.
In Italia, da Nord a Sud, ci sono moltissimi siti archeologici: Paestum, Pompei, Agrigento e tantissime aree sull’isola di Sardegna, giusto per citarne alcune. Come mai Velletri?
Come dicevo in precedenza, l’Italia è il Paese del Vino e ogni sua località, come quelle che ha citato nella domanda, hanno una straordinaria vocazione in quanto a suoli, climi e cultura, quindi estremamente prestazionali dal punto di vista della coltura della vite e della vinificazione. Non tutti però possono giovarsi di tutte le condizioni favorevoli possibili, non certo tutte assieme.
Velletri era già abitata nel 1400 a.C. ma la sua scelta non attiene soltanto a ragioni storico-archeologiche, per quanto lavorare le uve in un’area già rinomata per il vino nell’antichità abbia il suo fascino. Infatti i terreni in cui le viti affondano le loro radici sono stati generati da un’esplosione vulcanica che ha dato vita ad una tessitura fatta da quattro distinti suoli, condizione che ci consente di non fare trattamenti; siamo al di un’ideale circonferenza: da una parte proviene l’influenza marittima e dall’altra siamo ridossati dai bastioni dei Monti Lepini, con buona canalizzazione eolica; infine siamo vicinissimi al massiccio del Gran Sasso che nel contesto generale ci assicura ottime escursioni termiche, mediamente di 16 e talvolta anche 20 gradi.
Cosa conferisce carattere ai vini di Ômina Romana, qual è la sua filosofia produttiva?
La nostra filosofia consiste nel motto latino “mens et manus”, consapevoli che senza la tecnica la manodopera non basta. Il nostro modello produttivo esige fare vini di grandissima qualità e struttura, eleganza ed armonia, insomma vini che sappiano essere territoriali ed edonistici al tempo stesso. Nella nostra linea Ars Magna, tutto deve essere perfetto in sé e conferire una complessità gusto-olfattiva che soddisfi la poliedricità dell’assaggiatore che desideri concedersi calici intellettuali, rigeneranti ed appaganti.
Come ha convinto Heinz Beck a diventare suo testimonial?
Lo contattammo molto tempo fa e, malgrado la condivisione della lingua e della nazionalità, sulle prime non era disposto a venire, semplicemente perché non amava avere rapporti con le cantine. Un giorno si decise a farci visita, anticipando che aveva solo 20 minuti a disposizione. Feci del mio meglio per rispettare i tempi, lui restò stupito dalla tenuta e dai vigneti, si disse felice e compiaciuto ed a me non restò altro da fare che portarlo in cantina ad assaggiare i nostri vini, poiché mancavano ancora circa 10 minuti. Heinz è rimasto con noi altre 4 ore.
E cosa beve il dott. Börner quando non beve i vini di Ômina Romana?
Tè verde.
Quali sono le principali differenze di metodo tra l’imprenditoria del vino tedesca e quella italiana? Cosa esporterebbe del concetto italiano in Germania e cosa importerebbe del modello teutonico in Italia?
In Germania l’imprenditoria è più analitica, in Italia le persone sono intuitive ed hanno più creatività, cavandosela piuttosto bene senza aver necessariamente organizzato tutto, cosa alquanto improbabile per un tedesco. Preferisco non parlare di esportazione o scambio, piuttosto credo che tedeschi ed italiani possano lavorare perfettamente bene insieme, creando sinergie inedite e modelli d’impresa straordinari.
A suo avviso come si dovrà difendere la viticultura dal cambiamento climatico? E quali strategie i produttori europei dovranno adottare per essere competitivi rispetto ai vini del Nuovo Mondo?
Dal mio punto di vista bisogna lavorare con metodi di coltivazione scientifici e favorire il progresso, d’altronde sono favorevole ai “pilzwiderstandsfähig”, quindi alle viti resistenti di nuova generazione. Dal punto di vista delle strategie di marketing, sostengo che il Vecchio Mondo possegga elementi unici e irripetibili: il fattore terroir, lavorare secondo natura ove si può e l’autenticità non replicabile delle varie regioni vitivinicole europee. Il Nuovo Mondo è semplicemente un’area geografica più vasta e diversa con altri tipi di attrattori per il consumatore.
Anche i più grandi imprenditori hanno sogni e progetti. Ci parlerebbe dei suoi?
Il mio sogno è di sviluppare un’azienda che possa essere riconosciuta per fare tra i vini più rinomati al mondo.
La Cecina di León…non chiamatela Bresaola nel 2022
Di Gaetano Cataldo
Pare fosse conosciuto ben prima che Lucio Giunio Moderato Columella ne descrivesse il procedimento di produzione nel suo De Re Rustica: è la Cecina di León, salume bovino d’eccellenza originario della regione di Castiglia e León, il cui etimo deriva dal latino siccus ossia secco, essiccato.
Storia del prodotto
Per quanto si reputi che la prelibata Cecina abbia origini risalenti persino al I secolo a.C il suo consumo ha avuto maggior diffusione a partire dal XVI secolo, divenuta popolare a quei tempi grazie ai contadini che la producevano e la raccomandavano ai locandieri dell’epoca; il famoso agronomo spagnolo Gabriel Alonso de Herrera riporterà, nel suo Trattato di Agricoltura Generale del 1513, un capitolo a sé sulla cecina e le tecniche di salagione delle carni, mentre sono a cavallo tra il 1835 ed il 1839 le testimonianze riportate nella raccolta Tierra de León di Patrocinio Garca Gutiérrez in cui si evince che il consumo di cecina in un lustro fosse di ben 4800 arrobas, ossia 528 quintali.
In seguito Enrique Gil y Carrasco, scrittore romantico, dedicherà ampio spazio, nel suo “Il Pastore Transumante” del 1843, alla vita dei “figli della montagna” ed alle commoventi separazioni coi familiari per condurre le greggi lungo i tratturi, portando con loro fiambreras, ossia recipienti da viaggio tipici per conservare le provviste, colmi di cecina e prosciutto. Oggigiorno si stima che il 95% della cecina consumata in Spagna e nei paesi della Comunità Europea venga prodotta ed affinata nella sola León.
Divenuta un’indicazione geografica protetta nel 1994, la produzione di cecina è consentita nel solo comprensorio di León, Zamora e paesi limitrofi, tutti comunque facenti parte della provincia di León che, grazie al fattore pedoclimatico e ad un’altitudine media attorno agli 800 metri sul livello del mare, offre le condizioni ideali: infatti col suo clima asciutto e ben ventilato l’area di produzione ben si presta alla stagionatura della cecina, conferendo quella sua caratteristica delicatezza.
Classificazione, taglio, produzione
Generalmente la cecina viene classificata a seconda del taglio carneo, pertanto avremo a partire dal maggior peso la cecina de contra, taglio di petto o sotto fesa, la cecina de tapa, ossia del muscolo o fesa, la cecina de babilla, corrispondente alla parte posteriore della coscia o noce e la cecina de cadera, ossia dell’anca o scamone.
I tagli carnei provengono esclusivamente da mattatoi autorizzati ed il processo produttivo prevede le seguenti fasi: la rifilatura, la salagione a base di sale grosso marino, il lavaggio, il riposo, l’affumicatura della durata di 12-16 giorni, impiegando legna di quercia, rovere o leccio, ed infine l’asciugatura in camere naturali con il tradizionale metodo di regolazione di apertura e chiusura delle finestre.
Tale filiera di produzione, a partire dalla salagione, avrà una durata non inferiore ai sette mesi, al termine dei quali viene assegnata l’etichetta certificativa numerata a patto che l’organismo di disciplina (Consejo Regulador) abbia riscontrato qualità e rispondenza durante l’esame organolettico, garantendo quindi la tracciabilità a seconda che il prodotto sia intero, oppure avvolto o imbustato, porzionato o confezionato affettato e sottovuoto.
Esame organolettico
Dall’esame visivo si evince che la colorazione esterna della cecina assume toni di marrone scuro, mentre al taglio l’aspetto assume un colore variabile tra la polpa di ciliegia matura ed il granato a seconda della stagionatura, i quali tendono ad accentuarsi verso i bordi; inoltre è possibile vedere quanto al taglio sia visibile una raffinata marezzatura.
I profumi rievocano note tostate e di affumicato senza prevaricazione, profumi che aggiungono alla delicatezza durante l’assaggio un aroma inconfondibile; un lieve accenno sapido e di grassezza, che piuttosto che patinare il palato conferiscono nell’insieme una piacevole succulenza, completano il quadro armonico grazie ad una fibra tenera ed una gradevole persistenza.
Evocazione e tradizione
La cecina è un prodotto di grande evocazione storica e davvero tradizionale che si abbina perfettamente al Pinot Grigio, allo Chardonnay ed ai più satinati Franciacorta ma che si sposa benissimo anche con vini più territoriali come un Verdejo della denominazione Rueda un rosato a base di uve Prieto Picudo.