Il Vino e la Cultura per il Rilancio del Territorio 2024, Città del Vino e le bandiere
Redazione – Gaetano Cataldo
Grazie a un’attività congiunta tra l’associazione culturale Identità Mediterranea, l’associazione nazionale delle Città del Vino, il Comune di Lacco Ameno e, in particolare, l’assessorato alla cultura della cittadina ischitana, ieri è stato possibile creare un evento di grande rilievo per l’Isola Verde, e non solo.
Infatti, con delibera di giunta n° 24 del 7 marzo 2024, Identità Mediterranea, su concessione e approvazione dell’associazione nazionale delle Città del Vino, ha ottenuto il conferimento della prestigiosa bandiera delle Città del Vino per il museo archeologico di Pithecusae – Villa Arbusto, uno storico edificio che racchiude la profonda cultura ischitana, preservando importantissimi reperti archeologici a partire dalla preistoria.
Si è tenuto nei giorni scorsi il convegno “Il Vino e la Cultura per il Rilancio del Territorio” presso Villa Arbusto, un dibattito con numerosi relatori, alla presenza della stampa e della cittadinanza, per discutere sul potenziale di Ischia in quanto attrattiva di un turismo incentrato anche sul vino e l’archeologia, oltre che sulle straordinarie capacità, tuttavia inespresse, di destagionalizzare i flussi e godere della presenza di “cittadini temporanei” anche d’inverno. A seguito dell’analisi di tali tematiche, è avvenuta la consegna ufficiale del vessillo delle Città del Vino e quindi l’apertura dei banchi di degustazione, con i sapori dell’isola e i vini ischitani e flegrei.
Quali opportunità dunque per Ischia, mediante il sodalizio con le Città del Vino ed Identità Mediterranea? Si sono prospettati i presupposti per allestire una cabina tecnica di regia per la promozione dei valori territoriali e la realizzazione di progetti concreti?
A tal fine, con la moderazione del giornalista Graziano Petrucci, hanno partecipato Giacomo Pascale, sindaco di Lacco Ameno, e Carla Tufano, assessore alla cultura di Lacco Ameno, per i saluti istituzionali.
Sono intervenuti Marco Razzano, del consiglio nazionale delle Città del Vino, Giuseppe Andreoli, enologo della Cantina La Pietra di Tommasone, Ciro Verde, enologo della Cantina Il IV Miglio, Gaetano Cataldo, founder di Identità Mediterranea, Tommaso Mascolo, delegato Ais Isola di Ischia e Procida, Marco Starace, presidente Cigar Club Ischia, Michele Farro, presidente Consorzio Tutela Vini dei Campi Flegrei ed Ischia, Andrea D’Ambra, presidente Coldiretti provincia di Napoli e CEO di Casa d’Ambra, Ciro Cenatiempo, giornalista e scrittore, e Francesco Maisto, presidente Parco Archeologico dei Campi Flegrei.
Ha concluso Angelo Radica, sindaco di Tollo e presidente nazionale delle Città del Vino.
L’evento, per quanto di importanza locale sia per Ischia che per i Campi Flegrei, ha avuto in realtà una rilevanza a carattere nazionale in quanto è stato un evento assolutamente inedito: la commissione e la presidenza delle Città del Vino hanno deciso per la prima volta un tale riconoscimento, infatti per la prima volta il vessillo sventolerà su un museo piuttosto che su di una municipalità.
Alla manifestazione, con ingresso totalmente gratuito, hanno partecipato importanti attori del comparto vitivinicolo, del settore turistico, ristorativo e alberghiero, unitamente alle pro loco e alle associazioni. La cittadinanza di Lacco Ameno e tutta la comunità ischitana hanno assistito e partecipato all’avvenimento.
L’arte antica di fare ristorazione di tradizione, di territorio e di passione: Vicolo della Neve
Di Gaetano Cataldo
Di ristoranti scintillanti, strafighi e iperbolici ne troverete una vagonata in Italia, ma è raro trovarne di così ricchi di storia da poterci scrivere un manuale di gastrosofia sociale e nel novero di quei pochi, potete contarci, ci ritroverete per certo il Vicolo della Neve, antica pizzeria e ristorante, in quel di Salerno, nel cuore storico della città campana.
La notizia, dopo la chiusura del 2021 a causa della pandemia virale, è che il Vicolo della Neve ha riacceso i fornelli sabato 25 maggio scorso e la riapertura, come potrete leggere di seguito dalla dichiarazione dei nuovi imprenditori, è tutta un programma:
“Volevamo dare nuova vita alla storia ma soprattutto volevamo restituire ai salernitani radici e viscere che passano attraverso una cultura gastronomica che ricorda la semplicità delle mani delle nonne e di chi Salerno l’ha vissuta con sguardo attento e infinita saggezza. Il Vicolo è di tutti, è il filo rosso tra la città e chi la ama incondizionatamente. Vogliamo intraprendere un vero e proprio viaggio nel passato”.
È stata una giornata che tutti i salernitani ricorderanno, perché un faro luminoso, tra i più vivi nel panorama gastronomico cittadino, torna ad inondare di luce un quartiere e frantuma le ombre di una malinconia che si avvertiva dalla improvvisa chiusura, privando la città granata di un suo importante riferimento, pure perché esso ha da sempre costituito un luogo per celebrare non soltanto il semplice piacere della tavola, bensì per essere una viva rappresentazione della vita cittadina, indipendentemente dall’estrazione sociale.
Complimenti a chi, per la vita, se lo ricorderà davvero questo giorno e cioè Fiorenzo Benvenuto, Gerardo Ferrari e Marco Laudato, compagni di cordata coraggiosi in questa nuova avventura imprenditoriale, i quali promettono di alla città di Salerno un pezzo della sua storia, facendolo con orgoglio e commozione, tenendo fede alla tradizione golosa, tramandata da “Sciacquariello” e da “Peppiniello”, irriducibili deus ex machina del Vicolo della Neve ed artefici indiscussi del successo di questo locale.
Ai tre fieri gestori va anche il merito di aver attinto dalla memoria civica locale, con grande commozione della cittadinanza, i tantissimi aneddoti di cui il Vicolo è protagonista, proprio come in una collana verbale di Antropologia.
Facciamo un salto nel tempo, entro le mura dell’antica Salerno, patria indiscussa della prima università ante litteram, facendo appello alla memoria collettiva salernitana che qui, con il Vicolo della Neve, diventa un cammino in equilibrio tra storia e leggenda: infatti, è inconfutabile che sia il Vicolo della Neve abbia costituito da sempre il baluardo gastronomico della città di San Matteo per tutto il ‘900, ma si narra che esistesse già nel XIV secolo, durante il periodo aragonese, per quanto altre fonti vorrebbero sia stato fondato, più verosimilmente, attorno al ‘700.
Certo è che, nell’antica Salerno, questo locale prende il nome dal vicolo dove, poco più di un secolo fa, si vendeva anche la neve per gli usi più disparati, neve utile tanto ai pescivendoli che ai vinai, con in mezzo il core business dell’arte della pizza e della cucina popolare.
Come detto prima però, non soltanto piatti tipici e tonde fumanti appena sfornate: tra i tavoli del Vicolo della Neve sono passate intere generazioni di letterati e politici, di saltimbanchi e sensali, attori e prostitute, artisti e clerici, operai e dottori, ecco perché ha costituito un condensato del genius loci salernitano, ove andavano stratificandosi culture, mestieri e condizioni economiche, tra le più disparate, di un’umanità trasversale che si riversava lietamente, ferocemente e appassionatamente tra i tavoli, affamata com’era di buon cibo e di viverlo come pretesto per socializzare, per forza o per piacere, per come si stava stretti.
Tra le pietanze che andavano per la maggiore c’erano quelli appartenenti alla cucina più squisitamente popolare del Sud e cioè pasta e fagioli, parmigiana di melanzane, peperoni imbottiti, polpette al sugo, calzoni con le scarole e la cotica di maiale, pietanze che ricevevano la carezza termica di un forno a legna, per non parlare della milza e del baccalà con le patate. Ma il vero condimento erano gli ospiti che, famosi o meno, industriali piuttosto che operai, diventavano tutti protagonisti e teatranti di un unico grande spettacolo che la vita tuttavia era e continua ad essere.
Tra le armi segrete del nuovo Vicolo c’è la signora Maria Caputo, nonna di Gerardo Ferrari, che in fatto di tradizione se ne intende e, nella funzione di consulente gastronomica, certo darà qualche dritta a Marco Laudato, chef del “Vicolo della Neve” che saprà certo attirare l’attenzione con i profumi invitanti del ragù, della genovese e della lardiata.
Tra gli illustri ospiti merita doverosa menzione Clemente Tafuri, famosissimo pittore, che dipinse le pareti della pizzeria, di cui la rappresentazione dell’Inferno costituisce solo una parte dell’intera opera, oggi appartenente alla famiglia Carro, i vecchi proprietari del “Vicolo della Neve”, gestito
da Matteo Bonavita a partire dagli anni ’70.
Immancabilmente citiamo Alfonso Gatto, poeta ed habitué della storica locanda, attraverso i versi che le dedicò:
“Il vicolo aveva nel gancio l’insegna contrabbandiera del c’era una volta il lontano racconto del tempo che fu. Straniero, se passi a Salerno in una notte d’inverno di luna a mezzo febbraio, se vedi il bianco fornaio che batte le mani sul tondo di quella faccia cresciuta, ascolta venire dal fondo degli anni la voce perduta. L’odore di menta t’invita, la tavola bianca, la stanza confusa dall’abbondanza. In quell’odore di forno per qualche sera la vita si scalda con le sue mani e quegli accordi lontani del tempo che fu”.
Hanno presenziato a questo lieto evento il governatore Vincenzo De Luca, quindi Vincenzo Napoli, primo cittadino di Salerno, Alfonso Amendola, professore di Sociologia dei Processi Culturali presso l’Università degli studi di Salerno, Massimo Cerulo, professore di Sociologia all’Università Federico II di Napoli, Marco Russo, presidente dell’associazione “Tempi Moderni”, Yari Gugliucci, regista e attore, Corrado De Rosa, psichiatra e scrittore, e tantissimi esponenti del mondo della cultura e del giornalismo locale e regionale con, inoltre, i “Neri per Caso”.
La celebrazione della mattinata ha poi lasciato spazio ai preparativi per la serata: attorno alle 19:00, si è aperto nuovamente il sipario per l’inaugurazione del Vicolo della Neve e la folla che si contava è stata il vero metronomo per questa location dove la “salernitanità” si identifica.
Al di là del cluster enologico Avellino è tra le province più ricche della regione Campania eppure, a dimostrazione che indicatori economici come il prodotto interno lordo non rispecchiano sempre la realtà media vissuta dalle persone comuni, l’Irpinia sta morendo; i dati di Confindustria Campania del 2023 parlano chiaro: spopolamento, grosse carenze infrastrutturali ed alto tasso di disoccupazione.
La verde Irpinia sta invecchiando e ciò rende il quadro decisamente allarmante dal punto di vista demografico, ma altrettanto preoccupante è il costante smottamento delle comunità rurali, sempre più a rischio e sempre più abbandonate a loro stesse.
L’Irpinia è inequivocabilmente uno tra i distretti vitivinicoli più importanti d’Italia e tra quelli maggiormente vocati alla produzione di vino di indiscusso pregio.
Gli straordinari fattori pedoclimatici e soprattutto l’eccezionale varietà in termini geomorfologici fanno sì che quest’area geografica non tema il confronto con la Côte-d’Or borgognona, in quanto a terreni decisamente eterogenei; tantissime le cantine, altrettanto diversificate per grandezza, filosofia produttiva e modello enologico, che costituiscono veri e propri fiori all’occhiello per l’economia della Campania e per tutto il Mezzogiorno, per non parlare dei grandi marchi, vere e proprie aziende rinomate a livello nazionale e nel mondo. Il paesaggio della provincia di Avellino è strabiliante e di grande rilevanza naturalistica, per non parlare della storicità dei borghi e dei monumenti, dei siti archeologici e della tradizione gastronomica, che annovera prodotti agroalimentari d’eccellenza.
Tra i vini irpini di punta spicca il rossissimo Taurasi, la cui docg è entrata in vigore nel 1993 e il cui disciplinare di produzione a denominazione di origine controllata risale al 1970. Decisamente tra i vini rossi più grandi del nostro Paese, tanto che il famoso politico ed enologo piemontese Arturo Marescalchi asserì “devo confessare, chiedendo scusa ai miei Barolo e Barbera, che il Taurasi si deve considerare il loro fratello maggiore”. Tanto valeva in un glorioso passato e tant’è oggi, come attestano i riconoscimenti delle più eminenti guide e personalità del settore, sia a livello nazionale che all’Estero.
Fatto sta che il disciplinare del Taurasi è un disciplinare aperto. In poche parole ne è consentito l’imbottigliamento fuori dalla zona di origine e fuori dalla stessa regione Campania.
Molto probabilmente la mano di chi al tempo ha esteso un privilegio ad imbottigliatori con sede extraregionale, oggi difficile da eradicare e anche soltanto da restringere forse, doveva assolvere ad esigenze di natura commerciale già a partire dal 1970 e che poi si sono connaturate e corroborate con l’attuale docg in forma di diritti acquisiti, potremmo dire. La questione non getta certo ombre sulla rispettabilità e il livello qualitativo raggiunto dalle tantissime cantine avellinesi, ma apre certamente a delle considerazioni che il Consorzio di Tutela Vini d’Irpina, suo malgrado, dovrà affrontare. La situazione per la compagine consortile, insediatasi quasi due anni fa, è decisamente complessa da affrontare, considerando l’aver ereditato un ventennio scomodo in cui, quantomeno, l’area geografica veniva fatta passare per sinonimo di una sola cantina o quasi, fra i vari altri gap da recuperare.
Oltre al rischio di vedersi arginare una buona fetta di mercato, sussiste la conseguente possibilità che aumentino le giacenze di magazzino, ma il fatto che a rimetterci siano le piccole o le grandi aziende costituisce un danno economico relativo, poiché il pericolo più imminente è che a pagare le spese siano i viticoltori irpini, vedendosi le uve appese alla pianta pur di non rimetterci anche le spese della raccolta.
A cercare di mantenere comunque l’obiettività, non si può continuare a vedere un prodotto di nicchia svenduto a pochi spicci sugli scaffali della grande distribuzione: il brand Irpinia ne esce trasfigurato e questo non se lo merita. Parliamo pur sempre di vini straordinari il cui rapporto qualità-prezzo è troppo sbilanciato a causa di una svalutazione di prodotto.
Per poter affrontare ragionevolmente la questione ed avere un punto di vista su questa e altre tematiche legate a questo territorio, abbiamo chiesto ad una persona di grande trasparenza, pragmatismo e coerenza di farsi intervistare. Ve lo presentiamo…
Arturo Erbaggio è nato a Napoli nel ’77 ed è cresciuto ad Afragola. Nel 1996 ottiene il diploma di maturità scientifica, laureandosi nel 2003 in Scienze e Tecnologie Agrarie presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II e successivamente in Viticoltura ed Enologia presso l’Università di Foggia nel 2009, conseguendo inoltre diversi corsi e abilitazioni professionali durante il corso della sua ultraventennale attività lavorativa. Per quanto da piccolo abbia odiato il lavoro in campagna, oggi la sua ammirevole carriera è tutta incentrata sulla forte passione per la viticoltura e l’enologia.
Attivo nella ricerca e nella sperimentazione, principalmente in questi campi, grazie a collaborazioni con istituti di ricerca e università per lo sviluppo di progetti e lavori riguardanti il tema della sostenibilità, dell’impatto ambientale dei sistemi produttivi aziendali e degli effetti dello stress idrico e del climate change sulle performances vegeto-produttivo delle viti e sulla qualità dei vini campani, è un assiduo curioso di fisiologia vegetale, ecologia, sociologia e tecnologia, oltre ad essere un amante dello sport, particolarmente il basket, del bricolage e dell’edonismo nella sua accezione più ampia.
Influenzato dai suoi zii ascolta con piacere diversi generi musicali, “La fine è il mio inizio”, di Tiziano Terzani, è il suo libro preferito, mentre E.T. di steven spielberg ne è il film. La frase che più lo ha contraddistinto, quasi un mantra derivato dalla pallacanestro è “voglio la palla!”. Arturo Erbaggio sa riconoscere la bontà delle cose semplici, ecco perché tra i suoi cibi prediletti primeggia il pane con i pomodori datterini, conditi con origano, olio e basilico. Ad ispirare lui e tanti studenti ha avuto alcuni docenti della Facoltà di Agraria a Portici, a sostenerlo c’è sempre la sua famiglia. È membro del CDA del Consorzio di Tutela dei Vini d’Irpinia, consulente agronomico ed enologo presso alcune aziende viticole e cantine.
Dottor Erbaggio potrebbe esprimere il suo pensiero circa la questione del disciplinare aperto sul Taurasi?
La questione anima polemiche tra gli operatori della filiera e viene strumentalizzata quando si vuole creare confusione e malcontento in un areale dove vi sono criticità nel mercato delle uve e dei vini. In passato è stata data la possibilità ad alcune aziende di imbottigliare fuori dall’areale di produzione, probabilmente per rispondere ad esigenze commerciali, evidentemente prioritarie in quel momento. C’è da dire che la reputazione di talune piccole denominazioni, poco note, poco organizzate o deficitarie di player forti sui mercati, ne ha giovato.
Naturalmente tale situazione inficia anche altri disciplinari con un indotto anche più importante…
Riguarda molti disciplinari di produzione italiani, non solo quelli irpini o comunque campani in generale. Ma sia chiaro, oggi il Testo Unico del Vino garantisce nessuna liberalizzazione, ad eccezione delle deroghe già concesse e casi eccezionali, per tutelare prioritariamente i diritti dei consumatori. (In passato vi è stata battaglia legale con Comunità Europea che intendeva assicurare la libera circolazione delle merci, vino sfuso compreso).
Ritengo che non bisogna avere pregiudizi, in particolare quando essere campanilisti può risultare di ostacolo allo sviluppo. La pratica sicuramente sposta altrove una parte dei margini di guadagno e questo, a dire il vero, dispiace. Inoltre, storicamente, vi sono preoccupazioni legate al basso prezzo di vendita dei vini e al rischio di contraffazione. Relativamente a questo ultimo punto, è importante che le aziende imbottigliatrici siano assoggettate allo stesso sistema di controllo. Queste, talvolta, diventano anche soci dei consorzi. Inoltre, il prezzo di vendita delle bottiglie meriterebbe un’analisi non superficiale essendo legato in primis al costo dei vini sfusi. Vanno effettuate rilevazioni precise sui mercati, confrontati i dati e ponderati per le quantità.
Qual è la posta in gioco?
Le mie preoccupazioni sono maggiormente rivolte all’affermazione di uno stile dei vini sui mercati non rappresentativo dei territori, come conseguenza di una crescita numerica fuori dal solco dell’identità territoriale. Su questo bisogna lavorare…
Ma l’aspetto principale da considerare è rappresentato dalla redditività delle aziende viticole. Bisogna tener presente che le società imbottigliatrici, i grandi gruppi in generale alcuni dei quali vinificano anche in zona, rappresentano una soluzione valida a valorizzare ingenti quantità di uve e vini che altrimenti avrebbero problemi ad essere collocate, con il rischio di deprimere i prezzi e minare all’attività e presenza sul territorio delle aziende viticole. Per come vedo strutturata attualmente la nostra filiera, meglio che una fetta dei guadagni vada altrove che lasciare il prodotto invenduto. La priorità, rispetto a tutte le preoccupazioni elencate in precedenza, è garantire reddito ai viticoltori che altrimenti abbandonerebbero la coltivazione e, con essa probabilmente, la gestione virtuosa e sostenibile dei territori. Non ce lo possiamo permettere.
Situazione difficile. A suo avviso quali dovrebbero essere le azioni correttive di modo che vi sia un bilanciamento tra aspetto economico, territorialità ed immagine etica?
Mettere in atto politiche di branding territoriale. Il vino è una questione di identità territoriale e il consumatore lo connota come un ambasciatore dei territori di produzione. Esso è un paradigma di tipicità, coniuga le diversità territoriali che diventano più che mai bellezza e la stessa esperienza della degustazione richiede il coinvolgimento di questi aspetti. Questo intimo legame con il territorio è un vantaggio raro in agricoltura e, da un tale grado di rappresentatività, appare chiaro che la gestione del territorio è la base per il successo comunicativo dei prodotti agricoli ed il vino in particolare.
Per questo spero in un progetto di territorialità di ampio respiro che coinvolga l’intero sistema produttivo con le sue differenti filiere. L’agricoltura da sola non sarebbe sufficiente, necessitiamo di una governance ampia che miri al consolidamento del brand Irpinia, un territorio unico ed inimitabile. Un progetto del genere porterebbe al rafforzamento della reputazione dell’Irpinia tra i consumatori nella misura in cui si avrà percezione della cura del territorio. Sarà compito della Ricerca la produzione di conoscenza riguardo le originalità territoriali per dare consistenza e rafforzare la tipicità stessa. Non si può comunicare bene ciò che non si conosce, non sarebbe coerente e il consumatore ne risulterebbe confuso.
Attualmente qual è la prospettiva del Consorzio a riguardo e a cosa punta in generale?
La visione del Consorzio è che il territorio è la nostra eredità, la nostra risorsa. Siamo consapevoli delle criticità di alcuni areali e siamo fiduciosi che il lavoro di divulgazione intrapreso finora porterà i suoi frutti. Il nostro ruolo è di facilitare le relazioni con associazioni di settore, rappresentanti della politica e del mondo dell’informazione e ricerca, portando le istanze delle aziende. Abbiamo intrapreso un dialogo proficuo con Confindustria per agire in sinergia e promuovere con azioni condivise le eccellenze del territorio.
I punti di forza, i punti deboli e il potenziale ancora inespresso dell’Irpinia…
Parliamo di Irpinia del vino naturalmente…
Come ho espresso in precedenza l’immagine del vino è conseguenza di quella del territorio e qui ci sono le carte in regola per giocare la partita dell’eccellenza. Basta fermarsi e ammirare le forme del paesaggio: alternanza di boschi, siepi campestri a campi coltivati. Un’orografia complessa, con pendenze talvolta da viticoltura eroica, su cui si è innestata l’opera di generazioni di viticoltori generalmente molto rispettosi e conservativi.
Credo il maggior potenziale inespresso sia legato ai suoli e alle varietà autoctone allevate, in particolare alla luce delle necessità che il cambiamento climatico ci impone in termini di efficienza della risorsa idrica. I ricercatori stanno lavorando per imparare a gestire la variabilità dei suoli, che è ricchezza, le loro caratteristiche idrauliche, la relazione con le differenti varietà allevate in funzione della tipologia di vini da produrre. Lo scopo è di proporre variazioni a tecniche di gestione, non più sostenibili ormai, che andranno a mitigare l ‘effetto del climate change e ripristinare la fertilità.
Non dico nulla di nuovo riguardo all’originalità delle varietà allevate, dalle quali otteniamo vini identitari, espressione delle caratteristiche pedoclimatiche. Tuttavia gli studi riguardo la caratterizzazione delle nostre varietà sono molto pochi e non più procrastinabili. Nel prossimo futuro le conoscenze sulla fisiologia varietale saranno la base per strategie di viticoltura di precisione, l’unica strada che abbiamo per produrre meglio utilizzando meno energia. Tra gli obiettivi più urgenti ci sono la valutazione dell’adattabilità dei territori alle varietà e/o stili di vini, della resilienza delle differenti varietà agli stress idro-termici e dell’eventualità di irrigazione come leva di qualità.
Non è passato molto tempo da quando il progetto della doc unica regionale si è arenato. Ci è andata bene oppure abbiamo perso un’occasione?
Altro tema molto caldo, strumentalizzato, su cui si continua a fare confusione.
Francamente mi risulta po’ difficile capire una Doc su un territorio così grande ed eterogeneo come la Campania. Mi sembra in antitesi con quanto finora esposto riguardo la richiesta da parte dei consumatori di correlare le caratteristiche dei prodotti alle peculiarità dei luoghi di produzione.
Altra cosa sarebbe un brand collettivo…
Il Consorzio di Tutela Vini d’Irpinia si è espresso chiaramente con un comunicato stampa ad agosto 2023, di seguito proverò a riprenderne alcuni concetti.
Credo che un brand Campania, accomunando molte eccellenze dell’agrofood regionali da proporre in sinergia, potrebbe catalizzare molta più attenzione mediatica e curiosità sui mercati. Per il settore vino probabilmente non risolverebbe i problemi legati ad un esiguo numero di bottiglie ma la necessità di fare massa critica e di creare un brand regionale, deve essere frutto di una politica comune che indichi una strategia capace di conciliare la competitività internazionale in maniera coerente con la necessità di valorizzare le unicità territoriali, evitando confusioni per i consumatori.
Ma le maggiori preoccupazioni sono legate alle ripercussioni sociali, economiche e ambientali conseguenti all’introduzione di un disciplinare di produzione. Nelle aree collinari interne, non solo irpine, la viticoltura è tra le poche possibilità di produrre reddito e di gestire il territorio a basso costo per la collettività. Spesso si vive in un contesto sociale già labile per criticità legate allo spopolamento, ricambio generazionale mal gestito, abbandono della coltivazione dei campi per scarsa redditività.
Alcune aziende già da tempo sono impegnate in modi diversi per scoraggiare l’abbandono dei territori vitati consapevoli dell’enorme danno anche per l’immagine che ne conseguirebbe.
Credo che il modello viticolo conseguente all’introduzione di un disciplinare regionale genererebbe lo spostamento delle aree vitate in zone a minor costo di produzione e peggiorerebbe tale situazione con ripercussioni catastrofiche per i piccoli borghi irpini che si trovano in territori orograficamente affascinanti ma che determinano costi di produzione più alti.
Sono i limiti di una struttura produttiva poco adattabile, determinata dalla natura ma anche da una politica agricola che ha sussidiato troppo un sistema economicamente inefficiente.
Con provocazione, ma non tanto, dico che l’indicatore di benessere di un territorio e del buon lavoro degli attori della filiera, consorzi compresi, non è il mero numero di bottiglie vendute, né il costo per bottiglia, ma il costo del kg di uva.
Eppure sembra che siano passati i vitigni tolleranti…
C’è chi asserisce che anche l’utilizzo del portainnesto abbia snaturato la vite europea.
Ritengo che la genuinità delle nostre varietà possa essere garantita grazie ai progressi della genetica; bisogna avere fiducia nella ricerca, in particolare perché le tecniche di ibridazione, trasferimento genetico e via dicendo, assicurano la tutela dell’immenso ed inesplorato patrimonio di variabilità che le varietà autoctone rappresentano.
In questi termini vuoi sapere se sono preoccupato per la tipicità?
Non più di altri temi, alcuni dei quali abbiamo trattato in questa intervista. L’originalità produttiva non può essere solo una conseguenza di una scelta varietale, né di una forma di allevamento o tecnica di vinificazione, ma di quanto le scelte dell’uomo sono funzionali al TERRITORIO!
La mia prudenza è agronomica, per le conseguenze dell’introduzione di un bionte nuovo in un ambiente. Non è un aspetto da sottovalutare per il rischio di generare ceppi fungini super resistenti o altro tipo di perturbazioni dell’agrosistema. Finora non ho ascoltato o letto alcuna analisi di tipo ecologico. Resto comunque fiducioso in merito.
Ci parlerebbe del suo concetto di viticultura ed enologia e con quale approccio combatte il cambiamento climatico?
Sono fortunato a fare un lavoro che mi piace. Cerco di interpretare entrambe le materie con curiosità, disponibilità alla sperimentazione, per combattere la noia e aggiornarmi costantemente. Nella professione è più che mai importante non avere pregiudizi e, soprattutto, accettare di cambiare il proprio punto di vista. Inizi a divertirti quando, con una maggiore maturità, concedi alla creatività di entrare nelle tue cose, accetti il tempo, e cerchi di rallentare. Non è disincanto ma il bisogno di reinterpretarsi e prestare attenzione a nuove cose.
Mi annoiano le discussioni sulle tecniche, tecnologie, macchinari etc., mi interessano le persone, come si relazionano con la complessità, quali competenze maturano e come accettano i propri limiti per preservare i loro progetti. Ho la fortuna di avere frequenti confronti con amici-colleghi e sono sempre incentrati sugli elementi di diversità. Per l’enologia le competenze essenziali sono sensibilità ed empatia.
Riguardo ai cambiamenti climatici ho imparato dai ricercatori quanto sia importante avere un approccio multidisciplinare, lavorare con un gruppo di professionisti con competenze differenti ad affrontare la medesima necessità. La vite è posta idealmente al centro, studiata come un albero da botanici, fisiologi, ecologi, pedologi. Da questa metodologia di ricerca vengono via via palesate le relazioni delle piante con l’ambiente, e la loro capacità di modulare il passaggio di materia ed energia dal suolo all’atmosfera. Le condizioni sono cambiate, è sotto gli occhi di tutti, e rifiutare di adattare la tecnica viticola è la scelta più sbagliata. La posta in gioco non è solo la sostenibilità ambientale, ma anche lo stile dei vini e i la tipicità.
Il progetto a cui è più affezionato ed un suo sogno nel cassetto…
I progetti sono quelli futuri, da realizzare. Sarebbe interessante un upgrade del progetto psr Campania-Grease, che si è appena concluso, attinente alla sostenibilità nel vigneto e particolarmente legato alla cultivar Greco, in collaborazione con l’Università degli studi di Napoli Federico II, l’Università della Campania Luigi Vanvitelli, il Consiglio Nazionale delle Ricerche e l’azienda Feudi di San Gregorio.
Il mio sogno, da piccolo, era di poter giocare e vivere di basket; oggi mi capita qualche notte di rivivere qualche sprazzo di gara. Mi manca la pallacanestro. Francamente nel cassetto c’ è tanta voglia di libertà, anche dai sogni!
Cosa beve Arturo Erbaggio quando non beve i vini di Arturo Erbaggio?
Assaggio i buoni vini, tutti. Ho un debole per le bollicine non dosate e i bianchi salati. Mi incuriosiscono i progetti su territori in altura. Ricerco le interpretazioni dell’equilibrio gustativo dei colleghi più bravi, come eventualmente hanno dosato il legno, la freschezza e come riescono a realizzarlo in ogni millesimo, rispettando lo stile aziendale.
A Salerno, presso il Saint Joseph Resort, si è svolta l’ottava edizione del contest 3B Untold, la rubrica di Decanto.
Di Carol Agostini
Esperti del settore, giornalisti e sommelier di varie associazioni, suddivisi in quattro commissioni, sono stati chiamati ad eleggere i migliori tra i vini di quelle che all’estero vengono definite “le 3B del vino italiano”: Barolo, Barbaresco e Brunello di Montalcino.
La degustazione si è svolta secondo lo schema dei blind tasting orizzontali, ovvero le 52 referenze di Barolo e Barbaresco – in batterie da sei vini – e le 44 referenze di Brunello di Montalcino – in batterie da cinque – sono state assaggiate e valutate dalle commissioni esaminatrici rigorosamente alla cieca, al fine di eleggere i migliori vini che si sono aggiudicati il premio Tre Cavatappi.
I criteri di valutazione sono stati espressi da ciascun giurato attraverso un punteggio in scala da uno a cinque, per ciascuno dei seguenti ambiti: attrattività, espressività, iconicità, piacevolezza/prospettiva e coerenza.
I Premi Assegnati
Sulla base della media aritmetica dei punteggi assegnati dai degustatori sono stati assegnati i Cavatappi di Decanto:
Da 15 a 17 punti UN CAVATAPPI
Da 18 a 20 punti DUE CAVATAPPI
Da 21 a 25 punti TRE CAVATAPPI
Sono stati poi premiati i vini che hanno totalizzato il punteggio più alto nelle seguenti categorie:
Miglior vino
Vino più tipico
Vino con maggiore rapporto qualità-prezzo
Vino con la migliore etichetta (assegnato dai follower di Decanto sui social network)
A questi premi si è aggiunto anche quello di “Migliore Cantina“, assegnato all’azienda che ha ottenuto il punteggio più alto sommando quelli ottenuti da due referenze, e quello di “Migliore Cantina Emergente” all’azienda fondata negli ultimi venti anni sempre con lo stesso criterio.
Decanto è stato inoltre Media Partner del Paestum Wine Fest dove il 26 marzo – presso il padiglione di Decanto Untold – all’interno della kermesse, è stato possibile assaggiare proprio i vini che si sono aggiudicati i Tre Cavatappi.
Il Premio “Rosso dell’Anno” Dei Migliori Vini: Una Giuria di Esperti del Settore Rivela i Vincitori
Un evento enologico di risonanza internazionale ha visto la luce con il Premio “Rosso dell’Anno“, una celebrazione dell’eccellenza vinicola che ha coinvolto una giuria di esperti del settore, unitamente al team Decanto. L’obiettivo? Assaporare e valutare, alla cieca, i vini migliori tra i migliori.
La Sfida Epica Tra le 9 Referenze Vincitrici
Nel corso delle precedenti otto edizioni del contest “Untold,” ben nove referenze avevano conquistato il titolo di vincitrici. Un confronto epico si è tenuto quando queste eccellenze vinicole si sono sfidate per la prima volta, in un assaggio alla cieca che ha messo alla prova il palato e il discernimento dei giudici.
Hanno preso parte alla giuria in ordine alfabetico:
• Andrea Annunziata, Direttore Editoriale, Decanto
• Danilo Amapani, Redattore, Decanto
• Francesco Corsi, Giornalista, Carlo Zucchetti
• Gaetano Cataldo, Giornalista, Mediterranea Online
• Lorenzo Colombo, Giornalista, ioeilvino.it
• Luigi D’Acunto, Titolare, Decanto
• Roberto Garofalo, Sommelier & Wine Blogger, Decanto
• Simona Geri, Wine Expert, The Winesetter srls
I vini assaggiati:
1. Le Fonti – Panzano – Chianti Classico 2018
2. Le Berne – Vino Nobile di Montepulciano 2018
3. Col d’Orcia – Brunello di Montalcino Riserva “Nastagio”, 2016
4. Castello di Cacchiano – Chianti Classico Gran Sel. “Millennio” 2015
5. Strapellum – Aglianico del Vulture Sup. “Tenute Piano Regio” 2016
6. Anzivino – Gattinara Riserva “Cesare” 2017
7. Cantine Povero – Barbaresco “Batù”, 2019
8. Cascina Bongiovanni – Barolo “Pernanno”, 2018
9. Bianchi – Ghemme 2013
La Selezione del “Rosso dell’Anno” Scoperta Dagli Esperti
Nel contesto dell’evento, ciascun membro della giuria ha avuto l’opportunità di indicare le proprie tre preferenze, indicando il numero delle calze in cui erano custoditi i tre migliori vini in competizione.
Dopo una rapida conta dei voti, è stata la “calza 7” a rivelare il vino decretato “Rosso dell’Anno,” che ha conquistato il cuore di ben sette giurati.
Il prestigioso riconoscimento del “Rosso dell’Anno” è stato attribuito al Barbaresco “Batù” del 2019, prodotto dalle Cantine Povero.
Per completezza, va notato che le tre selezioni effettuate dalla giuria sono state, nell’ordine: il Vino Nobile di Montepulciano, il Chianti Classico e il Barbaresco, tutti dignitosi rappresentanti dell’arte vinicola.
Conclusione
E’ stata un’esperienza intensa che ho vissuto grazie all’invito di Luigi D’Acunto di Decanto e il collega, grande esperto enogastronomico Gaetano Cataldo, con me a vivere tutto ciò la collega Cristina Santini con la quale portiamo avanti il progetto www.Papillae.it e Fabio Pascucci Pepi direttore amministrativo della cantina Col D’Orcia, in rappresentanza della cantina .
Questa edizione rappresenta l’apice della rubrica Untold che ha visto il nostro team negli ultimi 24 mesi. assaggiare oltre 350 vini esclusivamente delle seguenti denominazioni:
Il 25 Marzo quattro commissioni, ciascuna composta da 6 esperti di settore, andranno ad eleggere i migliori Barolo, Barbaresco e Brunello di Montalcino che si aggiudicheranno i Tre Cavatappi.
Le commissioni valutatrici
Due commissioni composte da enologi, giornalisti di settore e sommelier di varie associazioni assaggeranno alla cieca 52 referenze di Barolo e Barbaresco per eleggere i migliori vini di Barolo e Barbaresco Untold. Di seguito la lista dei giurati valutatori di Barolo e Barbaresco Untold:
Ulteriori due commissioni composte da enologi, giornalisti di settore e sommelier di varie associazioni assaggeranno alla cieca 44 referenze di Brunello di Montalcino per eleggere i migliori vini di Brunello di Montalcino Untold. Di seguito la lista dei giurati valutatori di Brunello di Montalcino Untold:
Le referenze in assaggio di Barolo e Barbaresco Untold
Nel corso dell’evento ciascuno dei 12 giurati assaggerà e valuterà alla cieca tutte le 52 referenze partecipanti organizzate in batterie da 6 vini e di seguito elencate in ordine di azienda:
Le referenze in assaggio di Brunello di Montalcino Untold
Nel corso dell’evento ciascuno dei 12 giurati assaggerà e valuterà alla cieca tutte le 44 referenze partecipanti organizzate in batterie da 5 vini e di seguito elencate in ordine di azienda:
Argiano – Brunello di Montalcino, 2018
Bellaria – Brunello di Montalcino “Assunto”, 2018
Bellaria – Brunello di Montalcino, 2018
Cantina di Montalcino – Brunello di Montalcino, 2018
Carpineto – Brunello di Montalcino Riserva, 2017
Carpineto – Brunello di Montalcino, 2018
Casa Raia – Brunello di Montalcino, 2018
Chiusa Grossa – Brunello di Montalcino, 2018
Col d’Orcia – Brunello di Montalcino Riserva “Nastagio”, 2016
Col d’Orcia – Brunello di Montalcino, 2018
Col di Lamo – Brunello di Montalcino, 2018
Ferrero – Brunello di Montalcino, 2018
Franco Pacenti – Brunello di Montalcino, 2018
Frescobaldi – Brunello di Montalcino “CastelGiocondo”, 2018
Geografico – Brunello di Montalcino, 2018
La Colombina – Brunello di Montalcino, 2018
La Fiorita – Brunello di Montalcino “Fiore di NO”, 2018
La Gerla – Brunello di Montalcino, 2018
La Palazzetta – Brunello di Montalcino, 2018
La Poderina – Brunello di Montalcino Riserva “Poggio Abate”, 2017
La Poderina – Brunello di Montalcino, 2018
Lambardi – Brunello di Montalcino, 2018
Le Gode – Brunello di Montalcino “Vigna Montosoli”, 2018
Máté – Brunello di Montalcino, 2018
Mocali – Brunello di Montalcino “Le Raunate”, 2018
Mocali – Brunello di Montalcino, 2018
Patrizia Cencioni – Brunello di Montalcino “Ofelio”, 2018
Patrizia Cencioni – Brunello di Montalcino, 2018
Pian di Macina – Brunello di Montalcino, 2018
Poggiarellino – Brunello di Montalcino, 2018
Poggio dell’Aquila – Brunello di Montalcino Riserva, 2017
Poggio dell’Aquila – Brunello di Montalcino, 2018
Poggio Lucina – Brunello di Montalcino, 2018
Poggio Nardone – Brunello di Montalcino, 2018
San Polo – Brunello di Montalcino “Podernovi”, 2017
SassodiSole – Brunello di Montalcino, 2018
Scopone – Brunello di Montalcino, 2018
Sesti – Brunello di Montalcino, 2018
Tenuta di Sesta – Brunello di Montalcino, 2018
Tenute Silvio Nardi – Brunello di Montalcino “Vigneto Manachiara”, 2018
Tenute Silvio Nardi – Brunello di Montalcino, 2018
Terre Nere – Brunello di Montalcino, 2018
Tiezzi – Brunello di Montalcino “Vigna Soccorso”, 2018
Tornesi – Brunello di Montalcino, 2018
I criteri di valutazione di Untold
Per questa edizione di Untold abbiamo deciso di evolvere i criteri di valutazione in centesimi adottati nel corso delle precedenti edizioni per passare ad una metrica più sintetica e maggiormente espressiva della metodologia di confronto adottata.
La valutazione sarà, infatti, espressa da ciascun giurato attraverso un punteggio in scala da 1 a 5 su ciascuno dei seguenti cinque attributi:
Sviluppando la media dei punteggi attribuiti dai 12 degustatori andremo ad assegnare i Cavatappi di Decanto ai vini che totalizzeranno una media di:
15 – 17 punti: UN CAVATAPPI
18 – 20 punti: DUE CAVATAPPI
21 – 25 punti: TRE CAVATAPPI
I premi assegnati nel corso di Untold
Al termine del contest andremo a premiare i vini che totalizzeranno il punteggio più alto nelle seguenti categorie:
Miglior vino Vino più tipico Vino con il miglior rapporto qualità-prezzo Vino con la migliore etichetta (assegnato dai nostri follower sui social network)
Andremo, inoltre, ad assegnare il riconoscimento di Migliore Cantina all’azienda che avrà realizzato il punteggio più alto sommando quelli ottenuti da due referenze.
Infine, si assegnerà il riconoscimento di Migliore Cantina Emergente all’azienda fondata negli ultimi 20 anni che avrà realizzato il punteggio più alto sommando quelli ottenuti da due referenze.
Altra proposta di Ais Bologna per un’esperienza oltre Oriente
Redazione
La delegazione Ais Bologna organizzerà il primo evento dedicato al sake giapponese, previsto per il giorno 10 febbraio alle ore 20:30 presso il Best Western Plus Tower Hotel in Viale Lenin 43 a Bologna.
Relatore della serata Gaetano Cataldo socio AIS di lungo corso e sommelier professionista con un master in Food & Beverage Management. Reduce del successo di Mosaico per Procida, prima bottiglia a celebrare una capitale della cultura, e recentemente nominato Miglior Sommelier dell’Anno alla 31^ edizione del Merano Wine Festival, sarà lui a guidare i partecipanti in questo viaggio attraverso la storia del fermentato di riso.
Infatti Gaetano Cataldo è anche sake sommelier certificato SSA, co-fondatore della Scuola Italiana Sake creata da Giovanni Baldini , col quale collabora redigendo contenuti su Sake News, e caporedattore enogastronomico per Mediterranea Online. Durante la serata si disquisirà dalla nascita del sake alla sua influenza nella società giapponese, dagli ingredienti del sake al processo produttivo, con cenni sul servizio, gli abbinamenti e tantissime altre curiosità.
Verranno messi in degustazione un tokubetsu junmai della prefettura di Yamagata, un junmai ginjo della prefettura di Tottori, un junmai daiginjo della prefettura di Tohoku e infine uno specialie sake della tipologia genshu direttamente dalla prefettura di Hyogo.
La lungimirante delegazione emiliana ha voluto organizzare tale evento tenendo conto della diffusione del sake nel nostro Paese e della necessità di dotare i futuri sommelier di nuove matrici sensoriali, avviando così questo percorso inedito in Emilia Romagna, anche in considerazione della compatibilità tra la Dieta Mediterranea e questa millenaria bevanda.
Destinata sia ai soci AIS che al grande pubblico, il fermentato più famoso del Sol Levante sarà degustato assieme a 3 formaggi attentamente selezionati, proprio per dimostrare quanto l’abbinamento con il sake è in sintonia con il nostro modello alimentare. Inoltre, l’incremento di tendenza al consumo di sushi e sashimi nel nostro Paese, per non parlare dell’aumento dei ristoranti fusion, richiedono, a maggior ragione, proprio una costante formazione anche sul bere giapponese.
Quindi la Sommellerie non può non tenere conto dei nuovi modelli del bere e delle tendenze culinarie influenzate dall’Estremo Oriente: di conseguenze si intuisce facilmente che avere più matrici sensoriali in faretra non può che rendere più competitivi sul mercato del lavoro figure come barman, chef che approcciano ad un dato modello di cucina, e tutti gli operatori della ristorazione che vogliano accrescere le loro competenze.
Per info ed adesioni basterà scrivere a eventi.bo@aisemilia.it oppure collegarsi qui.
Gaetano Cataldo eletto Miglior Sommelier 2022 al Merano Wine Festival
Redazione
Per un sommelier italiano o europeo essere insigniti del titolo di “Miglior Sommelier del 2022” al Merano WineFestival è certamente il raggiungimento di un’importantissima tappa per la propria carriera.
È accaduto a Gaetano Cataldo, non lontanissimo dal compiere un ventennio di militanza nell’Associazione Italiana Sommelier, già reduce dell’enorme successo per la bottiglia celebrativa dedicata a Procida Capitale 2022 e per essere stato il primo sommelier ad essere ricevuto in udienza generale da un Papa, proprio in occasione del dono, costituito dall’inedito vino ideato assieme al winemaker Roberto Cipresso.
Senza smettere di sorprendere Gaetano Cataldo, fondatore di Identità Mediterranea, ha ricevuto Il 5 novembre scorso, presso il Teatro Puccini di Merano, l’attestazione di merito direttamente dalle mani di Helmuth Köcher, un riconoscimento che non premia soltanto il sommelier campano per un intenso anno di lavoro, dedicato alla realizzazione della prima bottiglia che celebra una capitale della cultura, ma anche per la sua intensa attività di enogastronomo compassato e comunicatore del vino.
Infatti Gaetano Cataldo, oltre ad essere caporedattore della sezione di enogastronomia della testata giornalistica di cultura Mediterranea Online, ha anche collaborato per la stessa rivista dell’AIS “Vitae”, con un pezzo che traduce la forte relazione tra il vino e il mare, oltre che per Vinoway, Onas Review, Sake News e Foodclub.it.
Fautore di un progetto, ricordiamolo, tanto francescano quanto eversivo, Mosaico per Procida è stato appunto realizzato senza un solo spicciolo e per mezzo di una logica completamente fuori dal sistema, creando di fatto l’inizio dell’Umanesimo del Vino e dimostrando che “non è dalla materia che nasce il pensiero, ma è il Pensiero a generare la materia”.
Dieci agosto ed annata del ’74: Gaetano è di Castel San Giorgio, un paesino nell’hinterland salernitano in bilico tra il pomodoro San Marzano, la tradizione per la pasta artigianale e la cipolla ramata di Montoro.
Venendo da una famiglia di origini contadine, con padre falegname e restauratore di mobili antichi e madre casalinga, è abituato da sempre alla cucina genuina, è cresciuto coi rituali tipici della vita di campagna, come le conserve di pomodoro, il pane fatto in casa e la vendemmia soprattutto: suo nonno, di cui porta il nome, lo immerse in un tino a quattro anni per fargli pigiare le uve e da allora gli è rimasto impresso il piacevolissimo odore del mosto che non è andato più via, neanche dopo aver smesso di fare il vino per consumo domestico, intraprendendo la vita di ramingo e marittimo.
Infatti il suo è destino in viaggio. E il viaggio comprende tutta la persona. Dagli studi alberghieri e nautici impara le materie da praticare, con l’esperienza e la cultura acquisita nel tempo il gusto per la giusta misura delle cose. Amante dell’Oceano-Mare e del Mondo Vino, tanto da farne una doppia esistenza: uno dei mestieri che svolge regolarmente l’ha condotto in molti luoghi e al confronto con altre culture, l’altro gli ha insegnato a gustare ed apprezzarne differenze e sfumature.
Navigante e sommelier professionista di scuola AIS, Gaetano incarna e traduce il rapporto tra il Vino e il Mare senza tralasciare la terraferma ed i legami malgrado i frequenti cambi di stagione trasversali.
Lo si è visto di tanto in tanto propinar cibi su qualche yacht di lusso e imporre abbinamenti suoi ai malcapitati, oppure in coperta tra la ciurma di cargo, velieri e navi da crociera; ha conseguito il brevetto di ufficiale di navigazione e la patente per il comando di navi da diporto, un master in food & beverage management e svolge consulenze per ristoranti, cantine ed attività produttive.
Ha ottenuto anche la patente di tecnico assaggiatore di salumi ONAS ed il diploma di sommelier certificato del sake,contribuendo alla divulgazione del fermentato nipponico proprio su Sake News, creando per primo una relazione tra il sake e la Dieta Mediterranea.
Tra le sue poesie preferite “Una Scuola Grande come il Mondo” di Gianni Rodari; è numismatico, pratica il jeet kune do e continua ad indagare da eterno studente attraverso la Cultura del Mare Nostrum, quasi fosse l’alter ego di Corto Maltese ma con un forte attaccamento alla sua terra, così da essere insieme local e global.
Non deve essere stato facile selezionare le cantine, allestire la mostra che ha dato vita all’etichetta, ricevere i patrocini morali, organizzare le degustazioni in tutta Italia e comunicare Mosaico per Procida, creando di fatto un caso totalmente inedito nel panorama vitivinicolo, tale da diventare oggetto per tesi di laurea in wine marketing, ma a Gaetano non è mancata una ardente pazienza ed un’appassionata determinazione pur di creare qualcosa che riconoscesse la gratitudine a Procida per la sua nomina e desse lustro alla regione Campania dell’enologia, del comparto agroalimentare e della ristorazione.
Ad accompagnare l’emozionatissimo Gaetano sul palco Roberto Cipresso, il winemaker e scrittore di fama internazionale, che detiene la paternità enologica di questo straordinario vino. Lo stesso patrón del Merano Wine Festival, nell’elogiare tale iniziativa, ha ricevuto in dono Mosaico per Procida a nome dell’Isola di Arturo e in riconoscenza per il protagonismo della Campania dell’enologia, particolarmente sottolineato a Merano per l’indiscussa storicità nel panorama vitivinicolo e per la qualità delle cantine.
Gaetano Cataldo ha tenuto a ringraziare Roberto Cipresso, tra i suoi mentori, le 26 cantine e tutti i partners del Mosaico, riconoscendo che la premiazione abbia un valore collettivo maturato per la capitale italiana della cultura 2022, per la nostra redazione e per la sua terra natia, assegnando altresì al prof. Attilio Scienza ed al critico enogastronomico Luigi Cremona le magnum celebrative.
Viaggio emozionale tra sapori, esperienze e ricordi di una nuova stella della Cucina Campana 2022.
Di Gaetano Cataldo
Probabilmente è il ricordo estivo che maggiormente perdura in questo autunno e che mette nostalgia al pensiero di una brezza marina che va al di là della semplice comprensione di un’esperienza balneare o comunque di una gita all’aperto.
Un ricordo indelebile, fondato su un’esperienza indimenticabile, quella fatta al Contaminazioni Restaurant di Somma Vesuviana, ristorante stellato di proprietà dello chef Giuseppe Molaro che promette esperienze che vanno ben oltre l’edonismo.
Ricerca degli ingredienti, padronanza della tecnica, senso dell’estetica sono certo fondamentali ma temo la cucina non sia un’equazione semplice da estrapolare, nemmeno se celebrata in una location da urlo: non è il risultato della somma di ogni singolo elemento utile al suo svolgimento e non può semplicemente rifarsi ad una semplice strategia, per quanto estrinsecata dal più bravo dei food & beverage manager.
Occorre qualcosa in più, di non necessariamente codificabile semplicemente nell’ambito di una degustazione sensoriale o che debba essere scritto, per forza di cose, in qualche esoterico manuale di cucina.
L’esperienza culinaria deve poter essere completa, appagante ed edificante: scuotere possibilmente il palato mediante la concentrazione di sapori e l’appeal edonistico, destare l’intelletto grazie ad un arricchimento culturale incentrato sulla filosofia del piatto e far vibrare le corde emotive dell’assaggiatore è la conditio sine qua non a cui uno chef deve aspirare per esaudire le aspettative di palati sempre più colti ed esigenti.
Un obiettivo difficilissimo che richiede sacrificio, studio, tecnica, dedizione e passione. Ma non è la naturale conseguenza del diventare chef, non basta. Certo il Territorio, la Tradizione, un Food Concept innovativo, ma non tralasciamo di ricordare quel detto biblico che afferma che nihil sub sole novum, altrimenti si rischia di scadere nell’ovvietà di pratiche meccanicistiche e story telling più che scontati.
Occorre ancora qualcosa in più, qualcosa che Giuseppe Molaro: la vocazione per l’alta cucina e quel suo 110% costante tra tecnica, sentimento, visione, istinto ed armonia.
Lo riesce a trasmettere con gli occhi e col sorriso, a voce, soprattutto facendolo risuonare al palato mentre si assaggiano, senza accorgersene, i suoi personali ricordi, ricordi di un percorso che alla fine di un viaggio tra i suoi sapori, si rimescolano tra gli ingredienti e diventano anche i nostri, facendoci percepire la struttura materiale ed immateriale di piatti che concettualmente nascono in Giappone, fanno il giro del mondo e diventano Vesuviani.
Recentemente insignito dalla Guida Michelin da quando è rientrato in Italia dal Giappone ecco un esempio della sua cucina mirabile.
È il cocktail hibiscus ad aprire le danze: ottenuto dall’aceto dei fiori di ibisco con una soluzione di alcool ed acqua, zucchero di canna, olio al peperoncino, kombucha al tè verde e bitter d’agrume, questo drink originale, e per certi versi esotico, accarezza il senso dell’olfatto con le sue note odorose e predispone sin da subito il palato, grazie al sapore intrigante, una lievissima astringenza ed alla piacevole acidità che rende ancor più succoso il sorso.
Il pane fatto con lievito madre, semi di lino e di papavero arriva a tavola caldo e con tutte le sue fragranze, assieme alla carta musica aromatizzata al rosmarino ed ai grissini al porro bruciato, accompagnati da un olio evo fruttato e di media struttura, dal burro di bufala e dal sale di Maldon. Insomma l’ospitalità mediterranea a tavola, celebrata da subito con bollicine di Caprettone Metodo Classico del Vesuvio Doc, perché il trittico della Dieta del Mare Nostrum sia soddisfatto.
Cena sensoriale in un percorso degustativo
Da qui arriva subito una svolta e ci ritroviamo a Tokyo assieme allo chef Molaro per condividere con lui la descrizione di un attimo tramite una delle pietanze ordinate, entrando in ristorante locale, dopo essersi perso tra le strade della metropoli, con tutte le sensazioni del momento e con un menu scritto esclusivamente in lingua giapponese davanti a sé… la melanzana cotta alla brace accompagnata da un brodo dashi leggero e del katsuobushi.
Una preparazione semplicissima ma spettacolare che al Contaminazioni Restaurant è diventata più ricca nella sua elaborazione e nella complessità dei sapori: dapprima cotta sotto vuoto e poi grigliata, la melanzana presenzia anche nella versione cremosa per accompagnare il kamobushi di petto d’anatra, il dashi e lo yukari, la foglia di shiso usata normalmente nella fermentazione dell’umeboshi e qui essiccata e poi ridotta in polvere. Al termine la pelle di melanzana a guarnire la preparazione e a relegarle ulteriore consistenza.
Le squame soffiate di ricciola vengono servite con una salsa ricavata dalla soia, dal sesamo bianco tostato e poi pestato, dal mirin, ossia un tipo di sake dolce da cucina, e dal miele. Un componimento croccante e decisamente gustoso a cui segue il panino al collo di maiale con cipolla rossa caramellata e dressing di salsa tare, portata che omaggia la perizia di abile “paninaro” di suo padre.
La pasta fillo ripiena di polpa di cosce di pollo cotte a bassa temperatura con timo, rosmarino, alloro e carote, poi servita con una salsa barbecue fatta in casa con in aggiunta un pizzico di curry, è davvero un bocconcino delicato e ricco di percezioni gustative per quanto bilanciato, perfettamente tenuto nella sua sfoglia.
Il battuto di ricciola con fragola fermentata, sedano ed acetosella stupisce non soltanto per l’intensità dei sapori ma persino per una sottilissima untuosità, per nulla impattante, nonostante sia composta da un blend di olio alla maggiorana sia fritto che ossidato.
A seguire un succulentissimo sgombro waraiaki con emulsione di mare, limone e spinaci: in pratica il pesce viene dapprima marinato in aceto di riso e successivamente cotto con la tecnica giapponese waraiaki, ossia da un fuoco dolce alimentato dal fieno.
In perfetta linea di continuità ed in un crescendo di sapori e profumi, pur sempre bilanciati, ecco la trota salmonata. Appena scottata in padella, viene servita in salsa tom kha gai, lime e lattuga.
Passaggi decisamente laboriosi per donare una esperienza decisamente tailandese, molto autentica: la salsa viene aromatizzata con verdure, lime, peperoncino, lemon grass, foglie di limone ed anice che veicolano nel brodo tutti i loro umori, per poi rafforzarli e condensarli con radice di curcuma, curry, latte di cocco e nuove note citriche rinverdite. Risultato? Un velluto per il palato ed un bilanciamento di spezie ed aromi pazzesco.
Lo spaghetto freddo con alghe e zenzero è stato un vero e proprio tuffo nel blu: soffritto di zenzero nel suo olio, sfumatura leggera con aceto di pomodoro home made ed un brodo di sedano, carote, cipolla, porro, funghi e finocchio, eseguito nella pentola a pressione, sono gli elementi caratterizzanti il liquido in cui cuocere la pasta.
Si raffredda il tutto a bagnomaria una volta aggiunto altro olio di zenzero, alga nori ed alga wakame in sosta nell’aceto di chardonnay ed una purea di prezzemolo. Di una delicatezza così disarmante e tale da non lasciar sospettare una tale complessità di elaborazione, il piatto è un’immersione sui fondali marini, circondati da ostriche e foreste di alghe. Soprattutto crea dipendenza.
L’esperienza marinara continua con lo scorfano: le carni vengono fatte frollare per una settimana e quindi lasciate macerare per una giornata nell’alga kombu,idratata e tostata al forno. Il pescato viene appena scottato, servito con concentrato di pomodoro, rucola saltata, fagiolini, ravanelli e malto al pomodoro. Una salsa insospettabilmente fatta con lische di pesce tostate e cotte con acqua di pomodoro, filtrata a fine cottura, raffreddata ed emulsionata con succo di lime e olio evo, ha costituito il legante perfetto per imprimere la giusta coralità al piatto.
La mela verde al sorbetto di finocchio e la sua barba croccante, come pre-dessert, è stato un ulteriore elemento di valutazione che non lascia dubbio alcuno sul lavoro metodico di Giuseppe Molaro, svolto per ammansire l’anetolo ed il fenitolo, senza però privare le materie prime del loro autentico gusto. Il rotolo di mela verde è ricavato dalla centrifuga del frutto in osmosi e la comunione col finocchio, oltre che ad essere ben congeniata, è a prova di vino.
Il kinako, caffè e liquirizia è un dessert di tale eleganza, bilanciamento di dolcezza ed aromaticità da mettere in crisi gli amanti del tiramisù, tanto più che non è affatto un tiramisù ma convertirebbe chiunque: preparata una crema namelaka con polvere di fagioli di soia, viene disposta su un crumble al caffè ed adornata di cioccolato fondente, gelato al kinako, gelato alla liquirizia con polvere di caffè e liquirizia.
A coronamento di un menu ricco, appagante e complesso il petit-four composto da marshmallows al fleur de bière e fragola, semifreddo al mango e verbena, semifreddo al pistacchio ed il suo croccante ed il mini cocco.
Conclusione
La cucina di Giuseppe Molaro rivela ingegno e passione, è un centro di gravità permanente sugli equilibri di ingredienti inediti nella loro combinazioni e che risultano sempre in perfetta armonia. Col suo cuore mediterraneo e la sua nipponica cura del dettaglio Molaro non è soltanto riuscito ad avvicinare due vulcani, il Vesuvio ed il Monte Fuji, lontani anni luce ma con la sua empatia riesce a trasmettere la matrice più intima della sua idea di ricetta, come in un viaggio condiviso tra sapori, scenari di vita vissuta e stati d’animo. Oggi possiamo ben dire che quando un piatto ha qualcosa da dire lo fa in bocca, lo trasmette alla testa e lo sussurra al cuore, facendo vibrare l’animo dell’assaggiatore.
A Gioia del Colle in una notte di Fine Estate 2017
Di Gaetano Cataldo
È giunta alla fine di una piacevole e tanto desiderata cena tra amici e, per quanto fosse logicamente coperta dalla patina del tempo, riusciva ad irradiare qualcosa di tangibilmente vivo dentro la casa-trullo padronale quella sera del 30 Agosto del 2017, illuminata come i nostri volti dalla sua presenza.
Era entrata quasi di soppiatto, senza annunci e sensazionalismi, con quella calma e la semplicità tipica delle persone che vivono le stagioni in mezzo alla vigna e lo fanno vivendo di valori concreti, offrendo una spontanea e sincera ospitalità, così sincera e generosa da farti sentire a casa, malgrado casa quella sera fosse ad un qualche centinaio di chilometri.
È giunta quasi presentandosi da sola per quel che diceva di sé implicitamente, è giunta come una benedizione e quando Pasquale Petrera mi ha sussurrato che si trattava della bottiglia di Primitivo prodotta nel 1981 da Giuseppe Orfino, suo nonno materno, mi è balzato il cuore in gola.
Quasi non riuscivo a credere che la visita che attendevo di fare da tanto tempo all’amico Pasquale, per il piacere di rivederlo, potesse sortire addirittura l’apertura di una bottiglia di tale inestimabile valore, una vera e propria pietra miliare non soltanto per la famiglia Petrera ed Orfino, ma per la comunità gioiese e l’Italia tutta del Vino, quell’Italia che sa attestarsi fieramente nel contesto internazionale senza temere rivali.
Non ci credevo, sono uno che riconosce che al mondo nulla ci è dovuto e che ogni giorno ci attende un esame nuovo, e non credevo di meritare affatto il privilegio di accedere al contenuto di una bottiglia tanto preziosa e rara, così preziosa al punto da racchiudere essa stessa l’embrione di un sogno di seguito dischiuso e avverato, incarnando dunque il testimone verace del cammino del padre di Pasquale:
Filippo Petrera, l’uomo che ha valorizzato e concepito il Primitivo di Gioia del Colle in purezza, creando il Fatalone, sinonimo del frutto di questo straordinario vitigno classificato dal primicerio Filippo Indellicati nel XVII secolo.
La sorpresa e l’ammirazione con la quale il buon Filippo, ad occhi chiusi, riscopriva nell’assaporare il gusto e le sensazioni che quel Vino è riuscito a donare a tutti noi, e soprattutto alla sua persona capace di decifrarne il sentimento racchiuso, è stato decisamente un momento di grazia:
infatti, sorso dopo sorso, l’intensità e la fragranza di aromi intessuti di ricordi affioranti dal calice hanno fatto sì che quel lontano passato comparisse di nuovo e gioiosamente Filippo stava rivivendo i ritmi frenetici di una vendemmia lontana ben 37 anni, ove non c’era posto per la stanchezza, poiché il richiamo della Natura creava un’atmosfera incantevole, fatta di felicità collettiva.
Sensorialità
E tale è la felicità per aver condiviso il Vino che nel 1981 sarebbe divenuto la chiave di volta, l’elemento irrinunciabile e decisivo per la nascita della prima bottiglia ufficiale di Primitivo di Gioia del Colle del 1987 e del conseguente disciplinare. E così il Vino è giunto a noi: D’ambra ed oro antico, cristallino…
Al naso le note eteree di acetone si fanno strada per lasciare lentamente spazio alla ciliegia sotto spirito, ad un sorprendentemente ancor succoso gelso nero e alla “monachella” (susina selvatica della Maiella), una scia foglie di mirto e chiodi di garofano su cui insiste l’odore della scatola di sigari.
Silenzio. Passa il tempo, gli occhi di Filippo Petrera brillano, anche quelli di Pasquale si inarcano ammiccando ad un sorriso guardando il padre rivivere l’allegria di una stagione lontana ancora una volta.E ancora… scorza di arancia candita, noci e frutta essiccata ancora non dischiuse del tutto, il ricordo della carruba volta in cacao, s’ollu e stincu ed una piacevole mineralità iodata.
Al palato entra come fosse quasi un sercial per esplodere in una piacevole freschezza agrumata appena “addolcita” dalla nota mielata del corbezzolo. Sorprendente acidità ed una buona concentrazione di sapidità, quasi da umami. Retro olfattiva a confermare l’arancia, una piacevole percezione di datteri e fichi essiccati, la precedente nota del mirto alla via diretta che si ammansisce mutando in timo, tabacco che sigilla il sorso con un’ombra appena di astringenza ripulita dalla succulenza del nettare…
Conclusioni sensoriali
I profumi ed il sapore percepiti mi hanno accompagnato in una fresca notte stellata lungo tutto il percorso dal pianoro gioiese sino al borgo salentino di Melendugno con una persistenza niente affatto scontata.
La luce negli occhi di Filippo Petrera, pioniere e padre adottivo del Primitivo di Gioia del Colle in purezza, che durante questa degustazione senza tempo ha rivissuto un arco temporale lunghissimo tutto racchiuso nella luminescenza che quel vino irradiava come la folgorazione ispiratrice che lo ha portato a desiderare il legittimo riscatto per un vitigno tanto nobile, a diventare il fondatore del consorzio di tutela e dunque alla realizzazione di un sogno, quel sogno racchiuso nella promessa della bottiglia giunta a tutti noi quella sera come una benedizione che viene da lontano e che si rinnova vendemmia dopo vendemmia.
A Francesco Franzese piace coi tacchi a spillo…2022
Di Gaetano Cataldo
Nell’universo della gastronomia stellata i fatti di cronaca non mancano mai, la vita degli chef viene spesso passata sotto la lente di ingrandimento ed al pubblico non dispiace affatto scoprire vizi e virtù dei maghi dei fornelli più in vista, leccandosi le orecchie ascoltando i loro segreti più intimi e pizzicarli con le dita nella marmellata… che poi chi più di loro solo i pasticcieri in fondo, no?
Buttata giù così magari uno potrebbe arrivare a pensare che ci sia un sottile piacere dietro l’ingrato compito di divulgare certe notizie, specialmente quando si tratta di mettere a nudo uno tra i principali interpreti della cucina stellata in Campania, manco fosse un gambero da sgusciare per benino. Di ciò non è dato sapere, lasciamolo pure all’immaginazione smaliziata del lettore, però qualcuno ‘sta cosa ve la doveva pur dire…
A Francesco Franzese piace coi tacchi a spillo!
Lo so, la notizia in sé non dovrebbe fare poi così tanto scalpore: insomma c’è comunque gente che se ne va in giro sbarazzina a praticare la sitofilia, quella forma di feticismo legata al cibo in cui viene raggiunta l’eccitazione sessuale mangiando dal corpo di un’altra persona eccetera, però in fin dei conti occorre essere pratici e di ampie vedute, lasciando che ciascuno usi per la propria contentezza il condimento che più gli aggrada e ribadire solennemente “l’importante è che ti ritiri contento a casa” o limitarsi semplicemente ad abbozzare un “de gustibus”… ma questa è un’altra storia e non so se c’ho voglia di raccontarvela.
In fondo perché giudicare il gusto altrui quando posso raccontarvi questa chicca riguardante niente poco di meno che l’executive chef del Rear Restaurant al Ro World di Nola?Comunque il fatto è sempre quello, non distraiamoci: a Francesco Franzese piace proprio coi tacchi a spillo!
Eppure sembrava fosse ieri quando assurse alla primissima stella Michelin stando alla direzione delle cucine di Casa del Nonno 13 a Mercato San Severino, riuscendo a confermarla in seguito.
Chi è Francesco Franzese?
Ma prima che tutto ciò accadesse ha dovuto farne di sacrifici: originario di Saviano e classe dell’89, Francesco ha lavorato sodo prima di farsi strada in questo settore altamente competitivo, militando tra i fornelli di location al top, tanto per prestigio quanto per il forte carico di impegno e tensione richiesto per poter dare sempre il massimo di sé, affiancando i protagonisti della cucina italiana e non solo…
E’ stato al fianco dello chef Vito Mollica a Firenze, sia al Four Season che al Palagio, successivamente con lo chef Giorgio Locatelli a Londra, poi in Campania, precisamente a Capri, dapprima al Ristorante l’Olivo con lo chef Andrea Migliaccio e successivamente al ristorante il Riccio, affiancando lo chef Salvatore Elefante per l’ennesima esperienza stellata.
Francesco avrebbe anche potuto pure accontentarsi di questa intensa formazione, ma sapete come sono fatti i cuochi che ci mettono il cuore:
deciso ad accrescere le proprie conoscenze culinarie e convinto che nella vita come in cucina ci sia sempre da imparare, decide di avventurarsi a Parigi, precisamente presso l’Atelier de Joël Robuchon, due stelle Michelin, per poi approdare in Sardegna al ristorante Il Fico D’india del Resort Le Dune della Delphina ed infine ritornare in Campania al Roji Japan fusion Restaurant di Nola dove nel 2018 non tarderà ad arrivare un primo riconoscimento: nominato chef dell’anno per la guida Mangia&Bevi del Mattino.
D’altronde il sentiero era già tracciato dall’amore per la cucina avvertito sin da piccolo, osservando con gioia e curiosità la mamma e la nonna cucinare per la famiglia, una famiglia che contempla contadini e pescatori, l’odore del pane fatto in casa, il sapore degli ortaggi e la freschezza delle materie prime ittiche della pescheria del padre.
Praticamente nessuno se lo sarebbe mai aspettato eppure, malgrado tutto ciò, a Francesco piace coi tacchi a spillo!
Ma che avete capito!? A Francesco piace la lardiata con i tacchi a spillo!
Certo che nell’immaginario di feticisti come voi sarà già venuto in mente la figura di chef Franzese china sul piatto ad adeguare la calzata a ciascun mezzanello con delle mini scarpette uso Pittarosso, preparate con chissà quale improponibile cibo… bravissimi! Siete fuori strada però!!
Oh, e allora di che cosa stiamo parlando? Di stravaganza ed allontanamento dalla tradizione?
Non direi proprio. E chi conosce bene Francesco per lo chef compiuto qual è e dai forti legami territoriali non si sognerebbe neanche di pensarlo. Francesco Franzese guarda risoluto alla tradizione e sa che essa non deve essere una scusa per dormire sugli allori, che non deve rappresentare un salvacondotto per fare cucina scontata e non deve costituire un freno per il miglioramento, l’innovazione e l’evoluzione del piatto.
Certamente i mezzanelli lardiati sono di diritto una delle eccellenze della cucina campana, e questo almeno dal XVIII secolo, ma costituiscono una ricetta squisitamente contadina, figlia della sussistenza, della capacità di valorizzare anche il più povero degli ingredienti e del bisogno di mettere in tavola cibo saporito e di consistenza, al fine di riempire la pancia, di mettere di buon umore, esattamente in linea coi tempi e con i mezzi di allora, apportando le giuste calorie a persone che vivevano di duro lavoro, del duro lavoro proprio di quell’epoca per niente sedentaria.
Protagonista indiscusso è dell’ottimo lardo di maiale ed a seguire pochi ingredienti, quelli di allora, e variabili a seconda del poco o niente che si aveva e delle scuole di pensiero…
Aglio o Cipolla? Basilico o Prezzemolo? Gambi di Sedano? Pepe o Peperoncino? Pecorino o Parmigiano Reggiano? Non importa, sappiamo che il piatto nasce per fare di necessità virtù, l’importante è che il lardo sia “allacciato”, cioè minutamente tagliato al coltello sino ad ottenere una crema, e che vi sia del pomodoro per cortesia.
Francesco Franzese non ha dubbi sulla scelta degli ingredienti per ricreare la lardiata secondo la sua personale interpretazione: partendo da un soffritto di olio evo all’aglio col lardo di pancia di maiale nero casertano, lardo di Colonnata e lardo di wagyu della prefettura di Kobe, lavorati a bassa temperatura, si aggiunge l’acqua di pomodoro ramato per poter risottare i mezzanelli rigati. A mantecare arriva il battuto di pomodoro di San Marzano e l’olio evo da esso ricavato, assieme alla crema di datterino, tutte e tre in versione confit, ed infine polvere di pomodoro alla brace.
A completamento del piatto di nuovo il pomodoro in polvere alla brace, la cotica soffiata, le fette sottilissime di lardo di Colonnata a crudo, che amplificano la delizia fondendo, e gocce di olio extravergine al basilico.
La versione franzesiana della lardiata nasce per esaltare ed amplificare i punti cardine su cui si fonda il sapore della ricetta originaria, disinnescando ogni attacco da parte dei dietologi e convertendo pure loro al Principio di Müller, spogliata così com’è da una eccessiva grassezza e resa leggera, briosa e biodisponibile. Piatto estroverso, certamente frutto della passionalità di Francesco ma anche di un ragionamento sull’estrazione degli ingredienti molto meditato e su uno studio altrettanto accorto del “maridaje” degli stessi.
Cotture millimetrate, estrazione massima del licopene e dell’umami dal pomodoro, inclusa la tendenza dolce in quello confit e la componente aromatica di quello cotto alla brace; la sinfonia dei lardi impiegati estende ulteriormente la persistenza a questo sontuoso primo piatto, dove non manca il gioco delle consistenze per diversità di struttura. Insomma una lardiata che non perde la sua identità, anzi ne assume una ancora più marcata.
E adesso potete anche pensare alla lardiata come ad una Cenerentola birichina che il galante chef nobilita con la sua arte, facendole esprimere tutta la sua leggiadra eleganza con un pizzico di rock.