Quando si pensa a qualcuno che racconta di territorio, di sentori e di gusto, con un calice in mano, la mente rimanda inevitabilmente alla figura del sommelier.
Ma se nel calice il prodotto non è il vino, bensì dei chicchi di riso, forse la sorpresa maggiore è che la figura in questione è sempre un sommelier, questa volta del riso appunto.
Del resto il riso, un po’ come la vite può essere classificato in varietà aromatiche, semi aromatiche e neutre. E come per il vino, si può parlare anche nel riso di terroir, attraverso le medesime caratteristiche di clima, territorio, metodi di coltivazione…
L’importanza di conoscere nel dettaglio un riso, di riconoscerne difetti, di saperne determinare la zona di provenienza, la tipologia di chicco, la consistenza, ha portato alla creazione di questa figura in grado di sottoporre i chicchi ad una approfondita analisi sensoriale.
Un modo insomma per vivere il cosiddetto “mare a quadretti” delle risaie, in modo più completo, profondo, ancestrale.
I corsi che portano a diventare sommelier del riso affrontano i temi di informazione agronomica sul prodotto, quindi produzioni nel mondo e in Italia, varietà, origini e processi di coltivazione.
Toccano l’importante questione dei difetti dei chicchi, la scelta delle varietà per il miglior abbinamento in cucina, le proprietà organolettiche da conoscere per ottenere i migliori risultati da una ricetta e da un piatto. La Società AcquaVerdeRiso organizza proprio questi corsi che portano ad essere esperti di riso, alla stregua di quello che possono essere i corsi da sommelier del vino, per arrivare a determinare caratteristiche, difetti, zona di provenienza.
La tecnica viene nominata “Il riso nel bicchiere” e il metodo è un procedimento analitico registrato in Europa, un complesso protocollo di degustazione e di valutazione del riso secondo una scheda ad hoc. L’importanza del metodo è legata al fatto che si tratta di un cereale dalla vastissima eterogeneità: al mondo ne esistono 140.000 tipi. A questo si devono aggiungere i diversi processi di coltivazione, conservazione, lavorazione e trasformazione che lo rendono uno dei cibi più versatili a disposizione degli chef del nostro pianeta.
Nella prima parte si affrontano i temi di informazione generale e agronomica sul riso: le produzioni nel mondo e in Italia, le varietà, le origini e le trasformazioni dei risi nel corso dei secoli, i processi di coltivazione e lavorazione, i difetti dei chicchi, la scelta delle varietà per il miglior abbinamento nel piatto, le proprietà organolettiche da conoscere per ottenere i migliori risultati in cucina, i risi pigmentati e aromatici.
Si passa poi a nozioni più tecniche e approfondite per arrivare ad acquisire le informazioni di base sull’analisi sensoriale applicata al riso e si approfondisce la psico-fisiologia della percezione.
Nello specifico si toccano lo studio dei sensi e delle soglie di percezione, l’apprendimento delle etichette semantiche, i test di analisi discriminante, i test di analisi descrittiva, attraverso la realizzazione di un panel test.
Per entrare nel dettaglio di quanto avviene in questi corsi, si inizia dall’analisi del riso a crudo, partendo prima dall’esame visivo e poi procedendo a quello tattile e olfattivo.
Poi si passa all’esame del riso cotto: il primo step è l’esame olfattivo, per passare poi a quello gustativo e retrogustativo, a quello visivo, a quello visivo dell’anima del granello (condotto mediante l’osservazione di un chicco schiacciato tra due vetrini), la tenuta di cottura e le sensazioni gustative e retrogustative post-degustazione.
La cottura del riso avviene in acqua demineralizzata e anche la scelta degli strumenti è rigidamente codificata: per l’esame olfattivo a crudo il riso viene messo all’interno di calici da degustazione, mentre per l’assaggio a cotto vengono utilizzate coppette di ceramica sormontate da un coperchietto in metallo.
Quando si arriva ad essere Sommelier del riso, il percorso di crescita è solo all’inizio (allo stesso modo, non ci stanchiamo di ripeterlo, di quanto avviene per il percorso formativo di un sommelier del vino!)
La continua degustazione, scoperta, partecipazione a panel di assaggio, rende sempre più completo il patrimonio descrittivo sensoriale che ognuno rielabora nella propria memoria, e proprio come per il frutto di Bacco, occorre continuare a degustare per capire e conoscere.
La Strada del riso Vercellese è la realtà che da anni promuove questa cultura, ha definito un protocollo preciso di addestramento, e forma ogni anno decine di sommelier, molti dei quali produttori risicoli, altri ristoratori, una buona parte appassionati gourmet che si avvicinano in modo sempre più professionale alla cena al ristorante!
Massimo Biloni, presidente della società Acquaverderiso, e docente insieme a Davide Gramegna ex ristoratore, è uno dei massimi conoscitori di riso in Italia e ha voluto creare questo percorso didattico per valorizzare il territorio di produzione del riso, per realizzare un riso trismo, alla stregua del successo che sempre più riveste il mondo dell’enoturismo.
Ed è un obiettivo importante e condiviso, i numeri parlano chiaro.
Tanti i produttori divenuti sommelier hanno aperto le loro aziende agricole a tour delle risaie ampliati in sessioni di analisi sensoriale; numerose guide turistiche con questo titolo hanno inserito nei loro classici giri di visita ai terreni coltivati, anche tappe degustazioni strutturate; alcuni chef hanno voluto approfondire la conoscenza di questo prodotto per inserire in menu anche varietà non considerate prima…
Il Sake e le Ostriche di vario tipo e provenienza 2022
Di Gaetano Cataldo
L’ostrica è un mollusco bivalve presente praticamente in tutti i mari, dove si riproduce e cresce liberamente; molti però sostengono, e a ragion veduta, che le migliori e più saporite ostriche non siano quelle selvatiche ma quelle di allevamento della costa francese che guarda all’Oceano Atlantico, verso il sud della Bretagna e nella regione del Merennes-Oléron anche se in realtà non mancano le eccellenze in diverse aree del Mar Mediterraneo e del mondo.
L’ostricoltura è diffusissima principalmente in Cina, Corea del Sud e Giappone; si pensi che circa il 70% della produzione annua di ostriche giapponesi proviene dalla Baia di Hiroshima… qui le ostriche sono chiamate “Latte del Mare”, sono molto apprezzate per dimensione, tenerezza e gusto, e sono rinomate soprattutto per le condizioni in cui crescono: i nutrienti di ben sei fiumi discendenti dai monti del Chugoku, che si riversano nella baia, ed il conseguente blend tra acqua dolce ed acqua salata rende questa specie ittica davvero speciale; nella classifica mondiale troviamo la Francia al quarto posto, prima in Europa, poi l’Irlanda e la Spagna.
L’ostrica concava del Pacifico, la Crassostrea Gigas, è la più coltivata al mondo, proviene dal Giappone ed è presente anche in altre aree di Oriente ed Estremo Oriente.
L’ostrica concava viene selezionata da molti allevatori europei grazie alla sua crescita rapida ed alla sua adattabilità: infatti a causa della scomparsa dell’ostrica portoghese, la Crassotrea Angulata, verso gli anni ’70 ha trovato vasta diffusione sul Vecchio Continente assieme all’ostrica piatta, detta Ostrea Aedulis.
Le due specie sono entrambe molto apprezzate dai consumatori di tutto il mondo anche se dal punto di vista gastronomico le ostriche piatte vengono ritenute più pregiate grazie alla morbida aromaticità e delicatezza della texture, mentre le ostriche concave o allungate sono generalmente più carnose e posseggono un sapore salmastro spiccato che le rende più persistenti.
Per poter ottenere le larve di ostriche necessarie agli allevamenti, dette anche “naissain”, si provvede alla captazione del novellame in ambiente marino aperto, oppure selezionando gli esemplari adulti per l’avanotteria.
Dagli stock di allevamento gli esemplari che avranno compiuto in media 18 mesi verranno prelevati per mezzo dei cosiddetti “plates”, piccole imbarcazioni dallo scafo e dalla chiglia piatta, portati fino alle aree adibite ad ostricoltura e disposti a seconda di come si intende allevarli.
Al giorno d’oggi esistono diverse tecniche di allevamento come ad esempio quella a “poches”, ossia la disposizione delle giovani ostriche in sacche consistenti in piccole reti di plastica, a loro volta disposte su tavole di metallo o a sparse al suolo di modo però che siano esposte alla risacca del mare, sacche che dovranno essere periodicamente rivoltate per garantire la crescita regolare di questi frutti di mare ed assicurare loro buone condizioni di vita ed un’ottimale circolazione dell’acqua di mare.
Il modello di ostricoltura cambia nella laguna mediterranea, ne sono un esempio lo stagno di Leucate e lo stagno di Thau, dove l’allevamento è verticale vista la scarsa escursione di marea e le ostriche vengono ancorate a corde vegetali a tre legnoli, oppure a corde sintetiche di nylon, piuttosto che a tavole di legno di mangrovia, ma sempre ad immersione permanente e con crescita più rapida rispetto agli esemplari allevati in Nord Europa.
Dopo la fase di pre-ingrasso ed ingrasso durante l’allevamento le ostriche passano alla rifinitura in apposite vasche o bacini di decantazione perché possano espellere melma e sabbia, dove talvolta degli iniettori di ossigeno aiutano a far affiorare i batteri nocivi in forma di schiuma facilmente eliminabile.
Caratteristici della Charente Marittima e della Vandea i bacini d’argilla alimentati da una miscela di acqua di mare e d’acqua dolce, detti “claires”, conferiscono alle ostriche un gusto particolare ed il tipico colore da “verdissement”.
Per quanto si suppone che l’ostricoltura sia stata avviata per prima dal popolo cinese non ci sono tracce evidenti e sufficientemente attendibili a dimostrarlo mentre, come la storia dimostra, questa pratica dell’acquacoltura pare più evidente essere stata inventata dagli Antichi Romani ed avviata persino nell’antica Albione da cui partivano cospicui carichi per Roma, tanto gli antichi latini ne andavano ghiotti e le reputassero indispensabili per la migliore riuscita di un banchetto:
fu così che da piatto povero, sotto Nerone, le ostriche divennero un piatto estremamente prelibato ed alla moda, tanto più che quelle provenienti dal Canale della Manica erano decisamente diverse rispetto a quelle che si raccoglievano lungo le coste della penisola italica, dell’Egitto e dell’Antica Grecia, ove il delizioso frutto di mare era considerato sì un cibo prelibato ma alla portata di tutti:
d’altronde il termine ostracismo, la pratica di votare o meno a favore l’esilio per un cittadino, si compiva proprio trascrivendo tale scelta su di una conchiglia di ostrica.
Naturalmente, per quanto le notizie scarseggino o non vengano valutate alcune fonti, le ostriche hanno costituito per millenni un cibo fondamentale per l’alimentazione umana grazie alla loro reperibilità e semplicità di consumo, tanto nell’area mediterranea quanto in Cina ed in Giappone: l’allevamento delle ostriche risale ad epoche remote e la singolarità dell’ostricoltura nel Sol Levante consisteva nell’impiegare rocce e canne di bambù a cui i bivalvi si attaccavano molto agevolmente.
Tra le ostriche piatte più famose vanno menzionate le Ostriche Belon, dalla tipica forma tondeggiante e dal gusto delicato, chiamate così perché un tempo venivano affinate esclusivamente sulle rive del fiume Belon in Bretagna, e le Ostriche Marenne, dal tipicissimo color verde acqua dovuto ad un’alga chiamata navicula blu che ne rilascia il colore… assieme all’Ostrica Pied de Cheval di Aquitania è tra le più care sul mercato.
Il recipiente più antico per bere il sake è la sakazuki, una coppa dall’apertura molto ampia fatta in terracotta o porcellana, finemente laccata e decorata, oggi disponibile sia in vetro che in oro o argento, in realtà però ne esisteva un altro ancora più vetusto e fornito dalla natura stessa: le conchiglie di ostrica.
In realtà la sintonia tra questi frutti di mare ed il nihonshu non si limita soltanto all’antica consuetudine di sfruttare la concavità dei loro gusci per favorirne la mescita: se è vero che il sake non litiga mai col cibo addirittura con le ostriche ci fa l’amore!
Le ostriche consumate crude ed il sake artigianale giapponese vivono un rapporto simbiotico che nessuna altra bevanda riesce a vantare, i due elementi hanno infatti delle caratteristiche simili che derivano dalla salinità, dalla tendenza dolce, dalla texture setosa e dalla cremosità che rendono entrambi compagni per la vita e per la gioia a tavola, ma c’è di più: l’umami!
L’umamiè la quintessenza del pairing tra ostriche e nihonshu
Costituisce il quinto gusto, quello che aiuta a bilanciare e migliorare gli altri quattro, ossia il salato, l’acido, l’amaro ed il dolce, traducendo appieno il sapore degli aminoacidi e nello specifico di glutammato, inosinato e guanilato… e guarda caso l’ostrica è tra i cibi più ricchi in natura di glutammato e di inosinato.
Ecco dunque spiegato attraverso queste straordinarie affinità elettive, di cui Madre Natura ha voluto dotare entrambi gli elementi, il perché bere sake e mangiare ostriche costituisce un abbinamento armonico perfetto. Si noti che, rispetto alla birra o al vino, il sake contiene mediamente una quantità di acido glutammico anche 20 volte superiore.
Ovviamente esistono delle prerogative che nell’abbinamento già congeniale tra ostrica e sake di per sé possono rendere il matrimonio ancora più felice…
Per quanto riguarda il frutto di mare terremo in considerazione quindi non soltanto la tipologia ma anche la provenienza, il rapporto tra acqua dolce ed acqua salata, la rifinitura, la modalità di apertura, il profumo, la consistenza e le caratteristiche gusto-olfattive.
Per quanto attiene al sake occorrerà fare invece attenzione all’umami, alla sapidità ed alla tendenza dolce: che il primo non superi quello dell’ostrica e che la seconda non sia particolarmente presente quando è già contenuta nel bivalve che, al contrario, se avesse una spiccata tendenza dolce potrà in questo caso giovarsi della sapidità di un otoko-zake.
Dunque la percezione di quanto queste caratteristiche comuni siano intense è fondamentale tanto quanto la persistenza aromatica dei due elementi in abbinamento ed il nihonshudo del fermentato giapponese: infatti un’ostrica dalle carni sode e dal gusto deciso vorrà un sake dal sapore più deciso e con una struttura più consistente, mentre un frutto di mare più delicato avrà bisogno di un sake satinato e gentile.
Alcuni esempi?Abbinamenti
L’Ostra Regal viene direttamente dall’Irlanda: trascorre i primi due anni di vita nella parte nord dell’isola, dove si nutre di fitoplancton, poi viene trasferita al sud presso la foce del fiume Snaney, dove le acque dolci ne completano l’affinamento. Un’ostrica dalla spiccata tendenza dolce con una consistenza tattile cremosa ed un finale di raffinata sapidità.
Un Junmai delicato ma con un carattere salino per tener testa alla prevalente tendenza dolce del bivalve. Si potrebbe persino azzardare con un cremoso e raffinato Junmai Daiginjo, stravolgendo le regole per un’esperienza sensoriale intrigante ed in sintonia con la texture dell’ostrica.
L’Ostrica Tsarskaya viene allevate a Cancale nella Bretagna Settentrionale, precisamente nelle aree di Park St. Kerber e della Baia di Mont St. Michel. Il gusto di questa varietà dal profumo iodato è ricco ed equilibrato al tempo stesso, il frutto è setoso e consistente con un gusto salino, una lieve nota di nocciola ed una bilanciata tendenza dolce.
Si abbina con piacevolmente con un Junmai Ginjo con una sbramatura del chicco attorno al 50% che conservi una buona nota cerealicola e che sia di grande equilibrio tra morbidezza, freschezza, sapidità ed umami. Ed uno sparkling sake? Perché no?
L’Ostrica Tarbouriech, di quelle proveniente dall’Emilia Romagna però e precisamente dalla Sacca degli Scandinavi, presso il delta del fiume Po:
è raffinata a partire già dall’aspetto, con quelle sue nuances rosa, si presenta all’olfatto con note salmastre e vegetali, mentre all’assaggio è consistente, succulenta e con una persistenza che orbita attorno a note vegetali sia marine che di sottobosco.
Un Junmai Ginjo affilato ed asciutto, capace di arginare la succulenza del frutto di mare e che ne raggiunga in persistenza le stesse vette.
L’Ostrica del Calvados è praticamente l’ostrica allevata più a Nord di tutta la Francia ed è stata premiata diverse volte nella categoria ostriche normanne.
Essa cresce proprio nella patria del famoso distillato di mele, ossia nel dipartimento di Calvados, precisamente nella Côte de Nacre, nei paesi di Asnelles e Meuvaines. È un’ostrica molto singolare in quanto riconoscibilissima grazie al suo guscio estremamente bianco, grazie alla limpidezza delle acque da cui proviene, e soprattutto per il suo sapore tendente all’aglio.
Le durezze e la nota iodata di questo frutto di mare, assieme al alla nota agliata, vorrebbero un sake morbido, persistente e con una buona nota umami.
Un Koshu Sake, prodotto con metodo Kimoto e magari invecchiato in grotta, sarebbe un abbinamento davvero piacevole.
L’Ostrica Special San Teodoro è un’eccellenza dell’ostricoltura in Sardegna: viene allevata a ciclo completo, ossia a partire dal seme, nella laguna di San Teodoro in provincia di Nuoro.
La conchiglia è tendenzialmente omogenea ed a forma di goccia, mentre il frutto è copioso e croccante, con note gusto-olfattive iodate ma con tendenza dolce, sentori vegetali e di frutta secca.
Un Tokubetsu Junmai fragrante, dai toni sia fruttati che erbacei magari.
L’Ostrica della Baia Hiroshima: immaginate questi esemplari di gran calibro arrivare alla vostra tavola direttamente dal kakifune, letteralmente barca delle ostriche. Preparate con la caratteristica ricetta kaki nabe, con porri, funghi e tofu, meritano certamente un Genshu Junmai, ma anche un Tokubetsu Junmai ci starebbe alla grande. Ci sono tra i Junmai dei veri e propri fuoriclasse che con le loro note burrose e boschive creerebbero comunque un match ad alto impatto emotivo e gustativo però.
Le ostriche, diversamente da quelle allevate che sono state modificate geneticamente e rese sterili, vedono il miglior consumo nel mese di gennaio ed anche in altri periodo dell’anno, eccetto che da maggio ad agosto, epoca di riproduzione, poiché in questa fase diventano più molli, lattiginose, meno saporite e soprattutto più deperibili.
Le ostriche di allevamento del tipo concavo sono classificate rispetto al calibro: dal 5 allo 0, rispettivamente dalle più piccole e dal peso di 30-45 fino alle più grosse che arrivano a superare i 150 grammi.
Inoltre, in base all’affinamento, si suddividono così come segue:
Fines: affinate in mare aperto per almeno 1 mese con densità di 20 ostriche per metro quadro. Speciales: affinate per almeno 2 mesi in mare aperto con densità di 10 ostriche per metro quadro. Pousse: se affinate per 4-8 mesi in mare aperto con densità di 5 ostriche per metro quadro. De Claires: affinate in bacini di acqua dolce poco profondi e argillosi, i claires appunto. Vert: affinate in presenza della microalga navicula blu, come menzionato in precedenza.
Composizione
Le ostriche sono composte d’acqua per l’85% circa, apportano 40 kilocalorie di proteine, 21 di carboidrati ed 8 di grassi per ogni etto e costituiscono una miniera ricchissima di sali minerali quali ferro, fosforo, potassio, rame, sodio e zinco, oltre che di vitamina B12, e sono considerate un alimento afrodisiaco per una ragione specifica: favoriscono lo sviluppo degli spermatozoi, fanno bene all’amore e pertanto è meglio tenere sempre una bottiglia di sake a portata di mano in camera da letto, assieme alle ostriche e ad una sana inventiva perché, afrodisiaco o non afrodisiaco, è il pensiero quello che conta.
Christina Chrisoula, Creta, il suo olio e il suo sogno 2022
Di Gaetano Cataldo
Il Mediterraneo è la patria indiscussa della varietà sativa di olea europea. L’ulivo, parte del trittico alimentare da sempre presente nella dieta delle popolazioni del Mare Nostrum assieme al grano ed alla vite, ha sempre avuto un ruolo fondamentale nello sviluppo e nel progresso delle civiltà sia in campo commerciale che simbolico: i suoi ramoscelli venivano associati alla gloria, alla pace e all’abbondanza.
Storia e olivicoltura collegata alle terre di espansione produttiva
Nel Partenone, il complesso scultoreo di Fidia riproduce l’ulivo al centro tra Atena e Poseidone: secondo la mitologia infatti la dea Atena piantò il primo ulivo sull’Acropoli come simbolo di vittoria contro Poseidone e da allora fu considerata la patrona dell’ulivo e le vennero dedicate le Panatenee ed i giochi panatenaici. Sin dall’antichità il frutto dell’ulivo ha avuto importanza primaria nell’alimentazione, nella religione, nella medicina e nella cosmesi.
A quei tempi l’olivicoltura si sviluppò proprio nel bacino orientale del Mare Nostrum in aree come la Mezzaluna Fertile, la Turchia Sud-Occidentale, la Siria e la Palestina, fino ad attecchire in Grecia e nelle sue Isole. Il popolo filisteo, il popolo egizio e quello cretese prosperavano proprio grazie alla coltivazioni di intere distese di uliveti ed innumerevoli sono le documentazioni e le prove storiche ad accertarlo: costituiscono una testimonianza importantissima i mortai a presse conservati al museo dell’ulivo delle industrie Sheman in Israele, che confermano la produzione di olio in quelle terre risalga al V millennio a.C.
In Egitto l’affresco tombale del faraone Ramses III, raffigurante i tipici vasi a staffa contenenti unguento e risalente al II millennio a.C., dimostra quanta valenza avesse l’uso d’olio di oliva nella cosmesi, mentre nella tomba di Tutankhamon (1341 a.C.- 1323 a.C.) raffigurano fronde e foglie di ulivo; infine, le enormi cisterne ed i grossi otri in pelle di capra fanno risalire la tradizione olearia sull’isola di Creta già in età Minoica ed altri reperti conservati presso il museo dell’olio di oliva di Kapsaliana Arkadi.
Per quanto attualmente la posizione di primato mondiale nella produzione di olio d’oliva sia detenuta dalla parte occidentale del Mediterraneo, col milione di tonnellate della Spagna, la Grecia ricopre comunque un ruolo di primaria importanza ed è destinata a scalzare facilmente l’Italia visto il trend negativo del 2016/2017: infatti, con una media annua di quattrocento ventimila tonnellate, è stato il terzo produttore mondiale d’olio d’oliva e la superficie coltivata ad uliveto copre circa un milione d’ettari con non meno di 150 milioni d’alberi (80% delle piante da coltivazione), occupando il 23.5% del territorio coltivato che, come giusto ricordare, ha una conformazione morfologica poco pianeggiante.
Sull’isola di Creta, territorio interamente riconosciuto come denominazione di origine per le peculiari caratteristiche, la coltivazione dell’olivo ha avuto un forte incremento negli ultimi 40 anni: infatti il numero di ulivi è di 35 milioni con una produzione di 120.000 tonnellate di olio. Gli uliveti a Creta ricoprono circa il 64.2% dell’area coltivata totale e costituiscono l’86% della superficie delle colture arboree ed i due terzi del totale sono in aree collinari e montuose.
L’olivo a Creta è coltivato sia su terreni poveri, prevalentemente rocciosi e con precipitazioni relativamente basse concentrate nei mesi invernali, che sui terreni fertili delle pianure in prossimità della costa. Generalmente, per mantenere la fertilità del suolo, gli agricoltori delle aree rivierasche utilizzano fertilizzante a base d’azoto e potassio; inoltre si provvede ad arare il suolo verso Marzo ed alla fine di Aprile, sia per eliminare la vegetazione spontanea che per facilitare la conservazione dell’acqua meteorica alla fine della stagione piovosa. Una seconda aratura è generalmente eseguita a fine.
Un altro metodo in uso è quello di lasciare incolti gli uliveti usando soltanto erbicidi per il controllo delle infestanti a seconda di quanto si voglia contenere la perdita d’umidità ed evitare la competizione vegetale per l’uso delle acque. Per le coltivazioni che si trovano su terreni in pendenza le pratiche di conservazione del territorio aiutano ad incrementare l’utilizzazione e la conservazione dell’acqua piovana, semplificando le pratiche agricole e minimizzando l’erosione del suolo.
Il terrazzamento costituisce la pratica più usata per la conservazione del suolo negli oliveti tradizionali, oliveti che sono andati via via riducendosi a partire dagli anni ’60, sostituiti da nuovi uliveti impiantati su terrazze costruite dai bulldozer di modo che la pendenza venisse rivolta verso l’interno e le cui distanze variano tra i sei e gli otto metri a seconda della pendenza del suolo. Le varietà principali presenti sull’isola sono la Tsounati, la Koroneiki, la Mavrelia e la Chondrolia.
Tra i primati più importanti dell’isola abbiamo l’ulivo di Vouves, nell’omonima villaggio del comune di Kolymvarinella situato nella regione di Chania, il quale si stima abbia almeno 3000 anni ed attrai 20 mila turisti all’anno.
Esaminando i risultati delle molte indagini condotte sulla popolazione dell’isola di Creta Ancel Keys ha potuto notare che i centenari erano particolarmente frequenti tra i contadini e che la loro colazione fosse spesso costituita giusto da un bicchiere d’olio d’oliva.
La storia di Christina Chrisoula è una storia affascinante, tipicamente mediterranea, ed è fondata su un lungo percorso che l’ha condotta a ripercorrere i luoghi della sua infanzia e le tradizioni della sua amata Creta.
Nata nel 1986 e cresciuta a Ierapetra ed originaria di una famiglia da sempre dedita alla coltivazione degli ulivi e alla produzione di olio per uso domestico, a 18 anni si è trasferita a Corfù per studiare alla facoltà di lingue straniere, traduzioni ed interpretariato presso la locale università. Sia durante gli studi che dopo la laurea ha viaggiato molto, vivendo in paesi come l’Irlanda, la Francia e la Spagna, sino a ricoprire il ruolo di Project Manager in una società di traduzioni ad Atene.
Parla fluentemente l’Inglese, lo Spagnolo ed il Francese e sogna di trovare il tempo per imparare a parlare anche l’Italiano, ma più di ogni altra cosa Christina desidera che l’olio extra vergine di qualità possa diventare patrimonio comune accessibile a tutti ed è per questo che ha deciso di tornare nella sua amata terra e diventare una produttrice affermata.
Da dove ha origine la tua passione per il lavoro da interprete e per i viaggi?
Ho sempre cercato di scoprire l’altro, nell’accezione di “estraneo”, capire cosa ci rende diversi e allo stesso tempo, cosa più importante, quali sono le caratteristiche che abbiamo in comune come esseri umani e che ci rendono più vicini.
E cosa ti ha insegnato?
Ad Atene ho cominciato a lavorare come stagista fino a diventare Progect Manager. La mia attività è durata ben sette anni e, guardandomi indietro, mi sento molto fortunata ad aver lavorato per la mia società perché mi ha insegnato cosa vuol dire la parola “professionalità”. Ho compreso grazie a questa esperienza ad assumere progetti e completarli con successo, risolvere problemi prendendomi le mie responsabilità, avere attenzione per il dettaglio sino ad imparare a soddisfare esigenze in base agli standard internazionali.
Più di ogni altra cosa ho compreso che la coerenza e l’impegno nel perseguire un lavoro di qualità alla fine ripagano sempre.
Quali sono i tuoi hobbies, cosa ti piace fare?
Naturalmente amo il buon cibo, adoro ballare il tango ed ascoltare la chitarra spagnola. Mi piace leggere e Nikos Kazantzakis è il mio autore preferito. Ovviamente trascorro con allegria il tempo nei nostri uliveti, faccio escursioni e, per quanto in inverno ami fare alpinismo, non posso vivere lontano dal mare!
Cosa ti ha riportato a casa?
Credo fosse scritto. Non importa quanti passi ho fatto per andare lontano perché ho sempre guardato indietro verso Creta. È un luogo speciale perché mantiene vive le proprie tradizioni e l’influenza che esercita su noi abitanti, quasi come un magnete, è molto forte e definisce a grandi linee chi siamo. È un’isola con una cultura ricchissima ed una storia molto lunga, ma possiede un grande paesaggio ed innumerevoli diversità. E poi è circondata dal Mar Mediterraneo che dispensa ai suoi abitanti i suoi doni con abbondanza.
Naturalmente questa attrazione è dovuta anche al legame con la mia famiglia. Prima coi miei nonni e poi con i nostri genitori io, mia sorella Anthousa ed i due fratelli minori Yiorgos ed Antonis abbiamo sempre partecipato alla raccolta delle olive. I miei ricordi sono intrecciati all’aria di festa che si creava in campagna e all’allegria di portare il raccolto presso il frantoio.
Questo stretto contatto con la terra e i nostri ulivi, l’odore e il sapore dell’olio di oliva fresco sono stati impressi profondamente nel mio cuore e nella mia mente. Tornando indietro nel tempo tutti questi ricordi che ho mi riconducono a me da bambina giocando vicino agli alberi secolari di ulivo, starci appesa o giocando a nascondino tra di essi.
E cosa ti ha portato a cambiare lavoro?
Come dicevo prima ed anche in questo caso il ritorno ai legami familiari, alle origini e all’amore per gli ulivi sono state le prime motivazioni ma molti altri fattori mi hanno portato a prendere questa decisione e la crisi economica ancora in atto in Grecia è stato uno di essi. Per quanto io e mio fratello Antonis, che ha sposato assieme a me il progetto, abbiamo operato una scelta affettiva personalmente credo che tornare alla terra ed alla produzione agricola sia l’unica via di uscita. Potrei sembrare ottimista ma credo che gradualmente sempre più giovani stiano cominciando a rendersi conto di questo.
Perché hai deciso di diventare una produttrice di olio?
Dopo essere ritornata abbiamo da subito deciso di acquisire più olivi e di portare la nostra consueta produzione di famiglia al livello successivo: fare la nostra bottiglia d’olio extravergine di oliva. Abbiamo da sempre condiviso coi nostri parenti la quantità di olio che eccedeva dal nostro fabbisogno familiare e dunque perché non pensare di renderlo disponibile anche ad altre persone?
Credo sia molto importante dare la possibilità a quante più famiglie possibili di poter mettere a tavola un prodotto unico, la cui storia si perde nel tempo, noi a casa abbiamo da sempre goduto dei vantaggi inequivocabili che l’olio d’oliva conferisce alla salute e credo che chi si occupi di alimentazione, a prescindere dal suo ruolo, debba provvedere anche a rendere il pubblico più consapevole sull’importanza di assumere una dieta sana.
Con la mia famiglia ci stiamo impegnando per ottenere un olio extra vergine di oliva di qualità superiore che possa diventare fonte di nutrimento che ogni genitore dia ai loro figli, renderlo accessibile a tutti.
Il cibo è soprattutto nutrimento di qualità, un bene comune da preservare.
La Cultura alimentare è molto sentita a Creta ed il tavolo dove si affronta questo dibattito sempre attuale coinvolge famiglie, amici, l’intera comunità e questo perché l’alimentazione più umile ma fatta con amore ed ingredienti umili costituiscono l’invito più naturale possibile per invitare il prossimo a sedere con noi, facendo dell’ospitalità anche il motore della comunicazione per Creta.
Più di tutto la mia è una vera e propria ricerca personale sul benessere e sulla felicità: il contatto con la natura ha sempre avuto un effetto sorprendente su di me. Quando ho realizzato di trovare qualcosa di creativo da fare ho pensato automaticamente ai nostri uliveti. Lavorare la terra è qualcosa che mi ha sempre fatto felice.
Dove sono ubicati gli uliveti?
Come ho già detto sono cresciuta a Ierapetra ma le radici della mia famiglia provengono dalla regione di Sitia e più precisamente nel piccolo villaggio di Zakros, verso l’estremità orientale di Creta. È qui che crescono gli uliveti, un posto isolato, giusto un piccolo punto sulla mappa, ma un luogo di particolare bellezza e ricco di storia, proprio dove la terra di Creta si tuffa lì dove nasce il sole.
È una terra aspra e ostile a prima vista, ma molto generosa per coloro che sanno prendersene cura e la coltivano con amore. L’olivicultura e la produzione di olio evo sono legate a Zakros da più di 3500 anni. Infatti nel 1961 gli scavi a Kato Zakros hanno portato alla luce il palazzo minoico; era un porto di grande importanza all’epoca e le navi partivano per scambiare materie prime e prodotti agricoli con Cipro, l’Egitto ed il Medio Oriente.
Non di meno è importante sapere che durante gli scavi furono trovati un piatto con olive conservate e un mulino di pietra utilizzato per la produzione di olio d’oliva.
Gioi e la sua Soppressata tra Storia e Sapori 2022
Di Gaetano Cataldo
La piccola cittadina di Gioi è incastonata nel cuore del Parco Nazionale del Cilento e del Vallo di Diano nella media valle dell’Alento ad un’altitudine che sfiora i 700 metri sul livello del mare e fa parte della comunità montana del Monte Gelbison e Monte Cervati; ubicata sul costone roccioso di una collina dalla quale è visibile la Catena Serra, Gioi si affaccia su due burroni i cui fondi valle si ricongiungono presso la pianura della Selva dei Santi ed è attraversata dai torrenti Fiumicello e Fosso.
Ambiente
Boschi di castagni e lecci si alternano ai querceti abitati da volpi, cinghiali, gufi reali, tassi, marmotte e ricci; dalle ripide vigne ed attraverso gli uliveti si gode di un paesaggio superbo e dall’alto spessore naturalistico, arricchito dalle vedute sui monti sino al Mar Tirreno, abbracciando con lo sguardo un perimetro azzurrato che si estende dall’isola di Capri a Capo Palinuro, passando per l’antica città di Elea.
Per quanto Gioi, con la sua unica frazione Cardile, conti circa 1300 anime, non manca di essere un luogo ricco di storia e fascino: anche se le prime notizie ufficiali, reperite mediante un diploma della Badia di Cava de’ Tirreni, si fanno risalire al 1034 è stata accertata la presenza degli Enotri che qui costruirono fortezze e rifugi, presidi successivamente rinforzati dalle popolazioni coloniche della Magna Grecia tanto da far presumere l’etimologia del nome di questo borgo cilentano gli derivi dalla trascorsa presenza di un antico tempio pagano dedicato a Giove.
In seguito Gioi divenne anche roccaforte prima romana e poi longobarda, accrescendo il suo prestigio in epoca normanna, quando divenne baluardo difensivo della Rocca dei Novi e quando, grazie agli Aragonesi, la sua fama di centro amministrativo e commerciale giunse sino in Toscana per via dei manufatti in legno, cuoio e lana, nonché per l’allevamento di bachi da seta.
Attrazione
Tra i principali luoghi di attrazione i ruderi della Cinta Muraria Medievale, del ponte, della Cappella del San Salvatore, del Castello e della Porta dei Due Leoni, unica superstite delle sette porte che garantivano l’accesso nel borgo fortificato.
Da segnalare le chiese dedicate a San Eustachio e a San Nicola per le quali Gioi è conosciuta con l’appellativo di “città dei due campanili”, il Convento di San Francesco del 1466 e la Chiesa di San Giovanni Battista, suo santo patrono, risalente alla seconda metà del ‘500 e, non ultimo, il Palazzo Baronale col suo antico frantoio e la Cappella della Madonna del Carmine; infine, da non perdere, i sentieri che ripercorrono le antiche mulattiere, i tipici mulini ad acqua ed il Lago Lavinia.
Presidio Slow Food
Lo scorso 23 giugno Gioi è stata insignita del Diploma di Certificazione consegnato durante l’assemblea internazionale di Slow Food a Mirande in Francia, entrando di fatto nella rete delle città Slow.
In questa graziosa cittadina, piccola gemma del Cilento, terra famosa per la Dieta Mediterranea, non possono certo mancare primizie e leccornie di prim’ordine, la più nota delle quali è la soppressata.
La soppressata di Gioi è un presidio Slow Food tra i primi in Italia, la cui produzione è autorizzata oltre che a Gioi e Cardile anche nei comuni limitrofi di Orria, Piano Vetrale, Salento e Stio.
Per risalirne alla tradizione bisogna ripercorrere le rotte della transumanza, ove l’incontro tra pastori cilentani ed abruzzesi è evidente nella contaminazione produttiva che vede somiglianze con la mortadella di Campotosto, per via del lardello centrale e della pezzatura, anche se l’insaccato gioiese risulta più schiacciato; andando ancor più a ritroso è possibile risalire attraverso il secondo tomo “Delle Cose Rustiche” del 1793, scritto da padre Gaetano Niccola Onorati, detto Columella, al fatto che che addirittura la soppressata di Gioi era nota ed apprezzata già nell’XI secolo, riconoscibile per essere l’unico salame campano lardellato.
Un tempo prodotto con l’autoctono suino nero cilentano, oggi viene ottenuto dai filetti, dai lombi e dai prosciutti di large white, duroc e landrace e loro incroci, allevati sul posto con alimentazione naturale, dal peso non inferiore ai 190 kg e di 12 mesi di età.
Le carni magre vengono lavorate nei mesi più freddi, accuratamente private di nervature e cartilagini, macinante finemente amalgamandole al sale marino e al pepe nero in grani, senza conservanti; vengono fatte riposare per almeno 10 ore per poi essere insaccate manualmente in budello naturale, inserendo quindi il lardello centrale, ricavato dal collo del suino.
Generalmente questa soppressata viene anche affumicata, oppure sosta in ambiente termo-condizionato per poi affinare in cantina ed essere stagionato, in ogni caso, per un periodo compreso tra i 40 ed i 45 giorni; talvolta, oltre che sottovuoto, viene conservata in vasi di vetro sottolio oppure nello strutto e, secondo una tradizione legata all’emigrazione dei gioiesi verso le Americhe o in Australia, viene inserita addirittura nel caciocavallo.
Degustazione
All’esame visivo esterno presenta una buona regolarità e risulta omogeno nel colore del budello su cui hanno attecchito le muffe naturali, mentre al tatto risulta consistente e compatto; la fetta, cedevole alla pelatura, si presenta di un colore rosso vivo omogeneo e leggermente marezzato, senza evidenti fessurazioni e di buona coesione persino in prossimità del lardello centrale.
All’esame olfattivo si avverte il profumo della nocciola tostata e delle note salmastre che si accompagnano ad un leggero sentore di affumicato e speziatura.
Con media capacità di masticazione, all’assaggio si avverte un buon equilibrio con una riconferma dei sentori di nocciola a conferire una piacevole persistenza aromatica di buona intensità, con sapidità calibrata ed accenni di pepato stemperati dalla scioglievolezza del grasso.
Abbinamento territoriale
con un Aglianicone in purezza della denominazione Paestum Igt del 2015 senza alcun affinamento in legno:
il colore rubicondo, quasi tendente al viola, la piacevole consistenza, il profumo ancora vinoso con note succose di gelsi rossi, ciliegia in confettura con accenni piperiti, i suoi tannini più delicati rispetto all’Aglianico, una piacevole verve acida e tendenza alle morbidezze, lo rende un compagno ideale.
La Cecina di León…non chiamatela Bresaola nel 2022
Di Gaetano Cataldo
Pare fosse conosciuto ben prima che Lucio Giunio Moderato Columella ne descrivesse il procedimento di produzione nel suo De Re Rustica: è la Cecina di León, salume bovino d’eccellenza originario della regione di Castiglia e León, il cui etimo deriva dal latino siccus ossia secco, essiccato.
Storia del prodotto
Per quanto si reputi che la prelibata Cecina abbia origini risalenti persino al I secolo a.C il suo consumo ha avuto maggior diffusione a partire dal XVI secolo, divenuta popolare a quei tempi grazie ai contadini che la producevano e la raccomandavano ai locandieri dell’epoca; il famoso agronomo spagnolo Gabriel Alonso de Herrera riporterà, nel suo Trattato di Agricoltura Generale del 1513, un capitolo a sé sulla cecina e le tecniche di salagione delle carni, mentre sono a cavallo tra il 1835 ed il 1839 le testimonianze riportate nella raccolta Tierra de León di Patrocinio Garca Gutiérrez in cui si evince che il consumo di cecina in un lustro fosse di ben 4800 arrobas, ossia 528 quintali.
In seguito Enrique Gil y Carrasco, scrittore romantico, dedicherà ampio spazio, nel suo “Il Pastore Transumante” del 1843, alla vita dei “figli della montagna” ed alle commoventi separazioni coi familiari per condurre le greggi lungo i tratturi, portando con loro fiambreras, ossia recipienti da viaggio tipici per conservare le provviste, colmi di cecina e prosciutto. Oggigiorno si stima che il 95% della cecina consumata in Spagna e nei paesi della Comunità Europea venga prodotta ed affinata nella sola León.
Divenuta un’indicazione geografica protetta nel 1994, la produzione di cecina è consentita nel solo comprensorio di León, Zamora e paesi limitrofi, tutti comunque facenti parte della provincia di León che, grazie al fattore pedoclimatico e ad un’altitudine media attorno agli 800 metri sul livello del mare, offre le condizioni ideali: infatti col suo clima asciutto e ben ventilato l’area di produzione ben si presta alla stagionatura della cecina, conferendo quella sua caratteristica delicatezza.
Classificazione, taglio, produzione
Generalmente la cecina viene classificata a seconda del taglio carneo, pertanto avremo a partire dal maggior peso la cecina de contra, taglio di petto o sotto fesa, la cecina de tapa, ossia del muscolo o fesa, la cecina de babilla, corrispondente alla parte posteriore della coscia o noce e la cecina de cadera, ossia dell’anca o scamone.
I tagli carnei provengono esclusivamente da mattatoi autorizzati ed il processo produttivo prevede le seguenti fasi: la rifilatura, la salagione a base di sale grosso marino, il lavaggio, il riposo, l’affumicatura della durata di 12-16 giorni, impiegando legna di quercia, rovere o leccio, ed infine l’asciugatura in camere naturali con il tradizionale metodo di regolazione di apertura e chiusura delle finestre.
Tale filiera di produzione, a partire dalla salagione, avrà una durata non inferiore ai sette mesi, al termine dei quali viene assegnata l’etichetta certificativa numerata a patto che l’organismo di disciplina (Consejo Regulador) abbia riscontrato qualità e rispondenza durante l’esame organolettico, garantendo quindi la tracciabilità a seconda che il prodotto sia intero, oppure avvolto o imbustato, porzionato o confezionato affettato e sottovuoto.
Esame organolettico
Dall’esame visivo si evince che la colorazione esterna della cecina assume toni di marrone scuro, mentre al taglio l’aspetto assume un colore variabile tra la polpa di ciliegia matura ed il granato a seconda della stagionatura, i quali tendono ad accentuarsi verso i bordi; inoltre è possibile vedere quanto al taglio sia visibile una raffinata marezzatura.
I profumi rievocano note tostate e di affumicato senza prevaricazione, profumi che aggiungono alla delicatezza durante l’assaggio un aroma inconfondibile; un lieve accenno sapido e di grassezza, che piuttosto che patinare il palato conferiscono nell’insieme una piacevole succulenza, completano il quadro armonico grazie ad una fibra tenera ed una gradevole persistenza.
Evocazione e tradizione
La cecina è un prodotto di grande evocazione storica e davvero tradizionale che si abbina perfettamente al Pinot Grigio, allo Chardonnay ed ai più satinati Franciacorta ma che si sposa benissimo anche con vini più territoriali come un Verdejo della denominazione Rueda un rosato a base di uve Prieto Picudo.
Cacao il cibo degli Dei ma non solo…amore, ricette, ingredienti, passione, viaggi sensoriali alla scoperta di questo intrigante prodotto
Cacao cibo degli Dei ma non solo…
Da qualche anno a casa lavoro la massa del cacao, trasformandola in praline e cioccolatini, oppure torte e biscottini, da qui nasce la mia passione per questa pianta “TEOBROMA “.
Con la mia famiglia abbiamo deciso di organizzare questo viaggio che mi porterà in un tour oltre Oceano, inizialmente lungo la “Ruta del cacao” nello stato del Tabasco, culla non solo degli Olmechi ma anche del cacao. È ad un’ora di macchina da Villahermiosa, nella città di Comalcalco, che si incontrano le haciendas cacaotera.
Il cacao gode di una storia millenaria, nasce in America Latina, appunto tra Messico, Panama e Perù.
Ci sono molte produzioni di cacao nel mondo, tra Africa, Vietnam, Sud America e appunto il Messico.
Il cacao da dove nasce?
Il cacao nasce da un fiorellino impollinato da insetti e formiche, diventa una cabossa ( immaginate di vedere una grande noce allungata), all’interno ci sono i semi che si chiamano fave, questi semi vengono messi ad essiccare circa 6 giorni, poi arrostiti e pestati, diventando polvere, amalgamata diventa pasta di cacao, grazie alla sua componente grassosa/olistica ( burro di cacao ).
Cos’é il burro di cacao?Il burro di cacao è grasso estratto dai semi di cacao.
Ho letto che veniva usato come moneta di scambio dai Maya e dagli Aztechi, usandolo anche come offerta per i morti, utilizzato come Cibo molto privilegiato dai Maya stessi, in quanto il consumo era riservato ai nobili e ai guerrieri.
Veniva assunto in forma liquida, mischiandolo ad acqua e spezie, infatti il suo gusto era piccante e pepato, come la cioccolata che ieri sera ha accompagnato la mia cena.
Aveva un fondamentale ruolo religioso oltre a quello sociale, “ cacau” significava “ riportare verso coloro che marciano, lavorano o coltivano” quindi per queste popolazioni sinonimo di denaro e moneta.
Si dice che la coltivazione del cacao fosse abbinata a riti religiosi dei Maya, attraverso la divinità EK CHUAH.
Il viaggio del cacao
I primi a scoprire l’esistenza di questo prodotto nelle terre azteche furono gli spagnoli, subito dopo Cristoforo Colombo nel 1502.
Invece il primo a portarlo concretamente in Europa è stato Cortes, che lo cominciò a coltivare appunto per esportarlo; fino il 1600 gli spagnoli avevano il monopolio del cacao in polvere in Europa.
Inizialmente la gente credeva che fosse una potente medicina, benefico per la salute fisica e psichica.
Fu esportato in tutta l’Europa, di uso e consumo delle classi nobili e benestanti.
Praline di cacao di vario tipo eseguite da Carol Agostini, il cibo degli Dei e non solo…
Chi amava e faceva uso di cacao? cibo degli Dei e non solo…Carlo Goldoni, Gabriele D’Annunzio, Giacomo Casanova
Tra i consumatori ed estimatori del cacao, quindi della cioccolata in Italia ricordiamo Carlo Goldoni ( Veneziano, nato nel 1707, morto a Parigi nel 1793, scrittore e commediografo della Repubblica di Venezia ), il padre della commedia, scriveva testi anche in lingua veneta, e parlava spesso di cioccolata, una delle sua opere celebri che racconta di tazzine, zucchero e cucchiaini, cioccolatini e piattini ci portano ne “la bottega del caffè”.
Anche Gabriele D’annunzio scrittore, poeta, giornalista e militare della Prima Guerra Mondiale ( Luglio 1914 – Novembre 1918), ( Abruzzese, nato nel 1863, morto in Veneto nel 1938 ) amava la cioccolata, soprattutto il Dolce “ Parrozzo” tipico della sua terra lontana, un dolce semplice di uova, burro e mandorle con un sottile strato di cioccolato, che aveva per lui il sapore struggente della nostalgia per l’Abruzzo, a cui dedicò un sonetto ( è un breve componimento poetico, generalmente composto da 14 versi endecasillabi suddivisi in due quartine e in due terzine.
Tipico della letteratura italiana, strutturato su uno schema ritmico, cioè l’alternanza delle rime, può variare: a rime alterne ABAB o incrociate ABBA, mentre le terzine sono per lo più costruite su tre rime replicate CDE CDE, ma anche su due alternate CDC DCD)
È tante ‘bbone stu parrozze nove che pare na pazzie de San Ciattè, c’avesse messe a su gran forne tè la terre lavorata da lu bbove, la terre grasse e lustre che se coce e che dovente a poche a poche chiù doce de qualunque cosa doce.
Quali sono altri effetti del cibo degli Dei…il cacao e il cioccolato?
Il cioccolato è un anti – depressivo, un fortissimo antiossidante, contiene caffeina, feniletilamina e teobromina, che stimolano il cuore e il sistema nervoso, aiutando le persone ad essere più felici ed euforiche.
Il cacao aumenta i livelli di serotonina che è l’ormone del buon umore, formando endorfine prodotte dal cervello, utili a potenziare l’attività fisica e il senso di gratificazione e beatitudine, inoltre, aumenta la vasodilatazione ( è l’aumento del calibro dei vasi sanguigni, in particolare delle arterie, delle arteriose, delle vene più grandi ), migliorando il sistema cardiovascolare attraverso l’apporto di sangue e ossigeno a tutti i nostri organi, è un “antidolorifico” naturale, donando sensazioni di serenità e rilassatezza.
Le endorfine sono sostanze chimiche prodotte dal cervello dotate da una elevata attività eccitante e analgesica, in grado di dare un senso di benessere e una delle condizioni scatenanti la loro formazione è proprio l’attività fisica. Quando sono stanca e agitata, mangio sempre un pezzettino di cioccolato, anche se è un alimento molto calorico, perchè contiene proteine, lipidi, carboidrati, acqua, amido, ferro, calcio, fosforo e varie vitamine A, B1, B2 e B3.
Alcuni studi che ho letto dicono che 100 grammi di cacao sviluppano 355 calorie.
Le calorie sono la quantità di energia di cui abbiamo bisogno giornalmente.
I nutrizionisti? sostengono che gli sportivi va bene il fondente, perché ha una maggior concentrazione di cacao, Più cacao, più polifenoli ( antiossidanti naturali ), più salute, mentre gli altri cioccolati come quelli al latte sono troppo ricchi di altre sostanze, calorie e grassi, che vanificano gli effetti positivi” .
Effetti del cacao il cibo degli Dei…
I suoi effetti stimolanti si possono notare anche a livello muscolare dove favorisce un maggiore recupero, aumenta la resistenza alla fatica e migliora la concentrazione.
I polifenoli contengono a loro volta i bioflavonoidi che sono molto importanti per i loro effetti benefici sul sistema cardiovascolare, sulla coagulazione del sangue e per la capacità di migliorare il sistema circolatorio.
La mia vera trasgressione…il cacao cibo degli Dei
Differenze tra cioccolato fondente e cioccolato al latte?
Il cioccolato fondente ha un tenore di zuccheri inferiore al cioccolato al latte, mentre il cosiddetto cioccolato bianco non contiene cacao ma una miscela di burro di cacao, zuccheri e derivati del latte.
Il cioccolato è quindi sinonimo di soddisfazione, ricompensa, piacere che lo sportivo si concede per compensare gli sforzi intensi dell’allenamento o per il rigore eccessivo del regime alimentare a cui è sottoposto, per cui a piccole dosi gli sportivi possono regalarsi un po’ di cioccolato possibilmente fondente.
Amore, passione, cacao il cibo degli Dei, cioccolata, cioccolatini e torte al cioccolato sono la mia passione più segreta ed intima…